La costruzione della nostra storia, avvenuta interamente nella mia testa, è stata tortuosa e sfiancante. Prima ho dovuto amarti, poi ho dovuto crearti, dagli occhi alla bocca, dai gesti delle mani alle rughe. Ti ho vestito e poi ti ho dato un sentimento e il sentimento era la pioggia. Hai cominciato scrosciando, un temporale improvviso senza nuvole e anche se ricordo strade violente intessute di luce dentro di me piovevi bianco come latte.
Portarti avanti all’inizio è stato facile, rispondevi lieve ad ogni assalto e non mi importava della tua consistenza. Come intraprendere un cammino nuovo con le gambe ancora fresche di fatica e la pianura incoraggiante ad ogni passo. Ma più avanti ti sei fatto attrito, sangue rappreso, masso e impresa e lo stesso mi sono trascinata per la via, portandoti dentro come un voto o un organo sfatto di cui non è possibile privarsi.
Ad ogni stazione ho imparato per te parole nuove e altre ne ho dimenticate: breccia e peccato, incertezza, radice, purezza, intero, impero e regime, dolcezza, e meno splendevi più ti desideravo e più ti desideravo più vita tenevi. E mi hai condotta in luoghi che non conosco ancora, luoghi che ho smesso di vedere, piazze, boschi, paesaggi lunari dove ti aggiri come una cosa dimenticata e andata a riprendere.
Questo sei adesso: elastico, punto di forza a cui tendo nonostante cerchi di allontanarmi. Sei un chiodo conficcato nella schiena e la pelle – in quanto pelle – ti ha assorbito come un’abitudine, non bruci più, non ti rivolti più in infezione o turbamento.
Sei il sorso che bevo al mattino, prima di toccarmi la pancia, verificando che esisto, prima del risveglio dei muscoli, prima di sentire che ho braccia e piedi e gambe e ginocchia e palpebre e lingua, prima di sentirmi ti sento. Sei tu che cadi liquido e caldo – la bottiglia sudata accanto al letto dopo il riposo forzato – tra i denti, nella gola, lungo le pareti dell’esofago, scorri, chiamando il giorno. Ti risponde con rabbia ancora una volta l’abitudine di cui non sa che farsi il corpo, di cui non sa disfarsi il corpo e nella mente agisci come un ramo imbevuto d’aceto e la crosta delle ferite è sempre minacciata da dita irrequiete che ti cercano per il puro bisogno di cercarti.
Continuo a formarti in ogni parte visibile e invisibile di ciò che sono, ti trovo un posto dove puoi crescere, dove ti proteggo per tutto il tempo di questa gravidanza senza fine che mando avanti perché tu non lasci mai il mio grembo. E mi affligge e mi consola tutto questo silenzio attorno, il tuo silenzio come foglie di novembre, il tuo silenzio come un orizzonte, il tuo silenzio come la debole dedizione di un torturato, il tuo silenzio assoluto e indifferente, il tuo silenzio come Dio, il tuo silenzio come uno che non è mai esistito, il tuo silenzio come un pensiero, il tuo forte silenzio come un pensiero, il tuo forte silenzio come un pensiero, il tuo forte silenzio come un pensiero.
Magazine Diario personale
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