“Appartenere al sesso femminile, nascere donne piuttosto che uomini, significa trovarsi al mondo in una posizione di inferiorità, oppressione e svantaggio“, constatava Mary Wollstonecraft, filosofa e scrittrice inglese, alla fine del Settecento.
Nata all’interno della svolta illuministica dell’Occidente, la complessa vicenda di movimento e di pensiero che (per brevità) chiamiamo oggi femminismo inizia da questo problema e cresce per più di due secoli, andando a incrociare la storia politica dell’Occidente stesso (se non del pianeta) e tutte le discipline del sapere.
Il pensiero femminista ha oltrepassato il secondo secolo di vita ed è vasto e articolato quanto i saperi e le politiche della modernità. Già chiamarlo femminista, riunendo sotto un unico termine posizioni diverse e addirittura conflittuali, rappresenta un problema. Attualmente (ovvero al culmine di una fase che ha visto il pensiero femminista espandersi come elaborazione teorica che adotta gli stili più raffinati e specialistici del dibattito filosofico contemporaneo) questo dilemma è ancora più evidente. Basti pensare alle difficoltà del linguaggio che caratterizzano le varie posizioni.
Nel femminismo inglese, per esempio, è comunemente adottata la distinzione tra sex e gender. Il termine sesso indica il fenomeno biologico della differenza tra uomini e donne; genere indica invece la costruzione culturale che definisce l’uomo e la donna, ossia il maschile e il femminile.
Nel pensiero femminista italiano domina invece l’espressione differenza sessuale, che proviene dalla lingua francese di Luce Irigaray (filosofa e psicoanalista vicina al movimento delle donne) e indica sia il dato biologico che l’ordine simbolico, sia il corpo che il suo immaginario, sottintendendo alla loro inscindibilità.
Ciò che è vero per ogni interprete di una teoria è quindi soprattutto vero per la teoria femminista. Presentare, discutere, interpretare il pensiero femminista da un punto di vista “oggettivo” prendendone le distanze è dunque praticamente impossibile.
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