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“Il velo dipinto” è strappato, sfibrato…Ne fuoriesce un’immagine chiara, nitida e dolce: l’amore si ricongiunge nel suo essere amore, lontano dal libro di Maugham che lo ha ispirato. Il film, di durata accettabile ma di concatenazione temporale non correttamente controllata, ha dalla sua lo squarcio paesaggistico di una Cina inesplorata, elegante, classica, un paradiso che congiunge il naturale con l’artificiale, la bellezza del locus e la complessità del lavoro umano. Gli anni ’20 rivivono nei vestiti inglesi, nelle pettinature, nel gusto architettonico, nella complessità geopolitica delucidata con troppa fretta nell’opera, nella nuova ottica di relazione, nell’emancipazione femminile che poi diventa condivisione tradizionale. John Curran mostra una forte inquietudine psicologica, che non si fa mai melodramma, né ha orientamenti di confronto. La dinamica di coppia ha qualcosa di emotivamente coinvolgente agli occhi dell’uomo moderno, con la donna che è ancora ottocentesca nel suo essere confinata ad un matrimonio a cui è del tutto disinteressata, e l’uomo che le è succube, devoto, innamorato. Il tradimento e la minaccia di scandalo, per richiesta di divorzio, pongono gli sposi al bivio: Walter assume un atteggiamento asperrimo, risentito, incapace di perdonare, tradito e con una vendetta lenta da perseguire, Kitty non perde il carattere forte, ma riscopre un nuovo modo di vedere la vita. E’ un’opera che ha un profondo significato che si esprime in una pacificazione carica di sofferenza, ma comunque rasserenata. Le forti ambizioni rappresentative sono appieno risolte nell’inquadramento di un mondo che confina gli uomini in un limbo di malattia, nella Cina della lebbra, distaccata dal mondo per tradizione, priva di contatti per evitare il rischio epidemia, ancora soggiogata. Un personaggio che congiunge Oriente ed Occidente è Waddington, che fa da tramite nella difficile relazione da restaurare tra il batteriologo e la amata traditrice. Il film è una crescita dei personaggi, che mantengono parte del loro bagaglio, ma imparano ad assaporare ciò che offre la vita. “Il velo dipinto” è un vastissimo lago verde acqua dove si affacciano gli sguardi degli uomini e cercano di riconoscersi, di specchiarsi, per comprendersi. Splendide le musiche di Desplat, di notevole impatto la resa fotografica, curata con garbo e senza ampollosità, piuttosto naturale, buona la regia “psicologica” di Curran. Le interpretazioni non toccano vette altissime: Edward Norton, da tempo portavoce del progetto fino ad esserne promotore, è monocorde, seppur imprime una certa instabilità al suo personaggio con grande e inattesa naturalezza, Naomi Watts non riesce ad affrancarsi dalla fama di attrice misurata, minimalista, mostrando una certa ripetitività, in questo caso, però, adatta al personaggio, Toby Jones il “Truman Capote” di “Infamous” ha dalla sua una fisicità caratterizzante spiccata. Va detto che le interpretazioni sono di molto superiori alla media. La sceneggiatura traballa sul finale, opacizzando inutilmente il tutto. L’impressione di aver visto un buon film non viene scalzata, la problematica sta forse nell’eccessiva verbosità ed introspezione, a discapito di un’emotività più passionale. Si tratta di un’emotività controllata, non per questo meno veritiera, ma forse meno d’impatto.
Sono curioso di vedere il film di Boleslawski del 1934, tratto dal medesimo testo, con Greta Garbo. Ecco un'immagine.
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