R. Guttuso - Vucciria
Era una bellissima giornata di inizio estate.Il vento aveva ripulito l’atmosfera, che si mostrava di una limpidezzaassoluta. La temperatura gradevole ed il soffio incostante dell’aria sulla pelleavrebbero predisposto chiunque all’ottimismo. Io, invece, camminavo a fiancodel mio salvatore oppresso da un’indicibile angoscia. Non riuscivo a pensare eneppure lo volevo. Mi sforzavo di seguire il filo dei suoi discorsi, grato perla distrazione che mi offriva.
Non aveva fatto obiezioni alla mia richiesta.L’aveva accettata, anzi, con divertimento, quasi con entusiasmo, come se glifosse capitata una fortuna inattesa. Mi parlava del vento, di come proprio queltipo di vento fosse tipico di Palnoc, tanto da dare una certa fama alla piccolacittadina. Era noto dappertutto come il vento-a-filo di Palnoc, perché dava alle poche nuvole che lasciava nel cielo laforma di lunghi filamenti.Usciti dalla stazione, avevamo attraversatouna grande piazza tonda, con una enorme aiuola nel mezzo. Tranne qualche taxiin attesa di clienti, non c’erano macchine. Evidentemente la stazione eraproprio a ridosso del centro, all’interno della zona pedonale. Nella via cheavevamo imboccato c’era una grande quantità di botteghe differenti, dalle qualila gente usciva ed entrava per fare gli acquisti. Passammo davanti apanetterie, sartorie, negozi di alimentari, tutti con grandi vetrine in cui sipoteva agevolmente vedere ciò che si faceva all’interno. Più avanti trovammo unfabbro, poi la bottega di un rigattiere a fianco del quale lavorava unciabattino. Un falegname aveva un’area di esposizione in cui si potevanoammirare le sue creazioni. Uno schermo di dimensioni notevoli permetteva diseguire i lavori dentro l’officina.Avremmo potuto essere in una qualsiasi via delcentro di qualsivoglia città. Nulla di quello che vedevo mi appariva strano, ofuori luogo. Non fosse stato per quei nomi così bizzarri avrei potuto pensaredi essere semplicemente sceso alla fermata sbagliata. Eppure c’era lo stessoqualcosa che non andava. Non avrei saputo dire cosa, ma il senso di estraneitàche ne ricavavo era totale. La cosa mi dava una continua vertigine. Più cercavodi analizzare le cose, più queste diventavano sfuggenti e si confondevano. Quellescene così quotidiane, così normali erano per me più inquietanti di un mondoalieno popolato di bizzarri esseri iridescenti. Nello stesso tempo non riuscivoa mettere a fuoco i ricordi per poterli confrontare con il presente.Ad un certo punto Talnòc, così si chiamava ilmio nuovo amico, si fermò a salutare un conoscente. Mi presentò a lui,dicendogli semplicemente che c’eravamo conosciuti in treno. Gli strinsi la manodicendo“Piacere, sono Giuliano … Bellini” Il tizio guardò sorpreso Talnòc, poi fece unrisolino complice e gli disse, battendogli la mano su una spalla“Accidenti! Un NomeDoppio! Avrai da stare congli occhi aperti, caro mio!”L’altro si era limitato a fare un vago gestoprima di riprendere il cammino con me.Quando fummo soli si sentì in dovere dispiegare“Qui da noi è raro trovare un NomeDoppio equei pochi che ci sono non hanno una buona fama”Non trovai nulla da rispondere. Forse avreidovuto spiegargli che non avevo un doppio nome ma che … In realtà non ne avevonessuna voglia, fissato com’ero ad arrovellarmi sul perché avessi avutoun’esitazione prima di dire il mio cognome.Mi accostai istintivamente al mio amico. Luisi era accorto delle mie difficoltà e propose di sederci ai tavolini di un bar.Mentre sorseggiavamo la nostra birra, glichiesi“Perché lo fa?”Mi guardò con gli occhi ridenti“Sì, voglio dire … perché si prende cura dime? In fondo siamo degli estranei”“Non creda che lo faccia solo per bontà. Leimi è stato simpatico fin da subito, ma il motivo non è solo questo”Fece una pausa per bere un sorso della suabirra“Come le ho detto, io mi occupo di tipi umani.Li studio, ne analizzo il comportamento. E lei è una splendida occasione perme!”Lo guardai con aria abbattuta.“Non voglio ferirla, mi creda. E non pensi oradi essere di fronte ad un approfittatore, ad uno di quei soggetti chepasserebbero sul cadavere della propria madre pur di ottenere il loro scopo.No, io non sono così. Vedo la sua difficoltà ed il suo caso mi sta a cuore.Veramente. Con me lei non deve aver timore di nulla; fino a quando non si sarà stabilizzato,diciamo, lei potrà restare da me. Sarà mio ospite. Mi creda, lo facciovolentieri. Però, per essere onesto nei suoi confronti le confesso che ho ancheun interesse professionale, per cui non ne abbia a male se la osservo e se, avolte, le farò delle domande. Che dice, può funzionare?”Mi strinse la mano nelle sue ed io, a miavolta strinsi le sue.Solo in quel momento cominciai a capire quantofosse disperata la mia situazione. Anche se mi rifiutavo ostinatamente di farequalsiasi ragionamento su quello che mi stava capitando, era sufficiente la suaofferta di aiuto per fugare ogni dubbio.Mi vennero le lacrime agli occhi.“Le posso fare una domanda?” gli chiesi convoce incerta“Senz’altro, mi dica”“Ecco, lei si ricorda quello che ci siamodetti in treno, vero?”“Perfettamente!”“Mi può dire allora come si chiama la cittàdove ero diretto?”.