Il Venezuela in fiamme: il regime spara sugli studenti, l'opposizione in piazza, il silenzio internazionale
Da Rottasudovest
Chi ha sparato sulla folla di studenti che, il 12 febbraio, protestavano
contro il Governo di Nicolás Maduro, uccidendo tre persone e ferendone qualche
decina? Sono stati i militari, come denunciano i giovani e i video, o sono stati
provocatori provenienti dall'estero, per gettare il Paese nel caos, accusando
le forze di sicurezza di sparare sulla folla, come assicura il Presidente? I
video mostrano uomini vestiti di nero su camionette, che si mettono a sparare
indiscriminatamente sulla folla, e poliziotti che fermano violentemente i
giovani manifestanti. Ci sono pochi dubbi circa la responsabilità del regime
nella violenza, in verità.
E fatto sta che da quasi una settimana il Venezuela è nel caos. Da una parte un
regime sempre più in difficoltà, che non riesce a sopravvivere senza il carisma
di Hugo Chávez, e che si trova guidato da un uomo palesemente inadeguato,
Nicolás Maduro, vittima delle proprie paranoie e con una manifesta incapacità
di governare gli enormi problemi economici e sociali del Paese, al di là della
retorica chavista, che traduce ogni mancanza in tentativi esterni di
destabilizzare il regime; Maduro è incapace persino di fare ordine con le
figlie di Chávez, che continuano a occupare la Casona, la residenza ufficiale
del presidente venezuelano e non ne vogliono sapere di cederla al legittimo
occupante. E dall'altra parte c'è un'opposizione frammentata, riunita intorno
al giovane leader Henrique Capriles, sconfitto alle elezioni presidenziali
tenutesi dopo la morte di Chávez, e che inizia a faticare a controllare il
malcontento che sta esplodendo nella società per la violenza, l'insicurezza,
l'inflazione e la scarsità di generi alimentari. Il presidente Maduro ha
cercato di risolvere la scarsità di generi con il controllo dei prezzi e ha
anche sostenuto che ci sono gruppi al servizio delle solite potenze straniere,
che non distribuiscono i beni di prima necessità, per sfiancare la popolazione
e indebolire il regime.
I venezuelani sembrano essere stanchi anche del ferreo controllo
dell'informazione: non ci sono più televisioni avversarie del chavismo, tutte
chiuse o costrette a cambiare linea editoriale, e quello che raccontano i
telegiornali non corrisponde a quello che la popolazione vede nel Paese.
Anche i violenti incidenti del 12 febbraio non sono stati raccontati in
televisione. Sono stati i video diffusi nelle reti sociali a
raccontare la violenza con cui i giovani sono stati trattati e la repressione
delle manifestazioni, che, nei giorni successivi, chiedevano la liberazione degli
oltre 200 detenuti. Il Governo su sente accerchiato, minaccia contro ogni tentativo
di Colpo di Stato, ha dato 24 ore di tempo a tre funzionari dell'ambasciata
statunitense per lasciare il Paese, ha
interrotto i collegamenti pubblici tra la capitale e la sua cintura, quasi
tutta governata da anti-chavisti, lasciando migliaia di venezuelani senza
possibilità di raggiungere Caracas. Su Twitter, buona parte degli artisti
ispanici si è schierata a favore dei venezuelani e contro il regime; tra i più attivi e indignati, la messicana Paulina
Rubio, il colombiano Carlos Vives e lo spagnolo Alejandro Sanz. Tutti a
chiedere pace per il Venezuela e a manifestare solidarietà ai venezuelani, con l'hashtag #venezulanoestasola..
A seguire con attenzione gli eventi in corso a Caracas e il caos in cui sta
precipitando il Venezuela post-chavista, tutti i principali quotidiani di
Latinoamérica: dalla Colombia al Perù, dall'Argentina al Cile, non c'è
quotidiano del Cono Sur, sia quale sia la sua linea editoriale, che non abbia
editoriali o articoli su cortei e violenze nel Venezuela. I governi e le
organizzazioni internazionali sembrano più prudenti al prendere posizione, al
di là dei soliti neutrali inviti alla calma e al dialogo e, ammettiamolo,
dall'Unione Europea e dagli Stati Uniti, qualcuno ha letto o sentito
dichiarazioni preoccupate?
Su El Espectador di Bogotà, Luis Carlos Vélez paragona Caracas e Il Cairo e scrive: "Ma una differenza mi ha colpito profondamente: il
disinteresse internazionale. Durante la crisi egiziana, nel 2011, tutti i media
internazionali si impegnarono a trasmettere minuto a minuto cosa stava
succedendo al Cairo. Stati Uniti, Unione Europea e Paesi arabi si pronunciarono
duramente. Le organizzazioni internazionali condannarono gli avvenimenti e,
praticamente tutto il pianeta mostrò interesse per quello ce stava succedendo.
Ma sembra che il Venezuela non importi a nessuno. Le reti sociali sono l'unica
cosa rimasta ai venezuelani che pensano in modo diverso. Su Twitter e Facebook
lanciano appelli per non essere dimenticati. Ma finora sembra che pochi diano
loro retta. Neanche qui, in Colombia, un Paese vicino in cui migliaia di
venezuelani hanno adesso una nuova casa" E leggete bene la conclusione:
"E' una disgrazia perché un Paese così bello sta collassando e perché in
Colombia non abbiamo imparato che dobbiamo votare bene, per non dover poi
lasciare il nostro Paese". Votare bene, che è sempre quello che conta,
alla fine, nel Venezuela o altrove.
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