Quello che mi piace di più quando arrivo a Parigi, sbarco a Porte Maillot e prendo la linea 1 della metropolitana per tornare a casa è guardare le pubblicità: manifesti di spettacoli, concerti, mostre, è come se la città mi stesse dando ancora una volta il benvenuto e mi dicesse cosa ha messo in serbo per me. Una girandola di novità, di possibilità, di esperienze nuove: è quello che è stata per me Parigi durante questi quattro anni. Sin dal primo giorno. Tutte le volte che l’ho lasciata e poi l’ho ritrovata, da quella prima volta in cui mi avventurai in un viaggio in macchina Matera-Parigi, lungo un’Italia sommersa dalla neve nel 2010. Un eccitante oceano di novità, di scoperte, fosse anche una strada sconosciuta per andare al lavoro.
Adesso, invece, tornando a casa, la terra sparisce sotto i piedi. Le strade, quelle nuove, quelle già percorse mille volte, si confondono. Il passato e il presente mi annebbiano la vista. La città non mi appartiene più. Non è più mio il quartiere di Montmartre, che avevo cominciato a conoscere. Il suono del pianoforte che sentivo dalla finestra e la cupola del Sacro Cuore che spunta improvvisa, alzando gli occhi, quando tornavo dal supermercato. C’è ancora il mio nome sul campanello, ma non è più mia la porta verde della rue Norvins. Parigi è diventata una delle città invisibili di Calvino, dove la realtà si mescola con l’illusione, il sogno si muta in un incubo.
Affacciarmi dalla finestra oggi è come sporgermi sull’orlo di un abisso. Tutto quello che c’è fuori mi terrorizza. Vorrei restare in un luogo senza più spazio né tempo, senza passato o futuro, un limbo indolore, un’anestesia costante. Sparire e non sentire più niente.
Sono qui, con le mie valigie fatte, con i cartoni pieni, e aspetto la partenza come il generale Bolivar, perso nel suo labirinto, aspettava un dolce oblio, sdraiato su un’amaca di fronte all’oceano. “Andiamocene, qui non siamo più desiderati”, diceva al suo maggiordomo. O forse siamo noi che, dopo tutti gli sforzi, i tentativi, le attese, non desideriamo più. E così, un altro trasloco, un altro treno, un’altra vita, forse. Questo è quello che mi consola, che sicuramente ci saranno altri indirizzi, altri aerei, altre biciclette, altre partenze più felici, altre lingue da imparare, altre esistenze da incrociare. Nuove possibilità di vita che ancora adesso non riesco a scorgere.
Mi piacerebbe guardarmi allo specchio, come Massimo Troisi, e dire che ricomincio da tre. Ma, questa volta, il vento cattivo ha soffiato troppo forte e ha sgretolato ogni cosa in mille frantumi e, anche volendo, non riuscirò a raccogliergli tutti. Fare scelte sbagliate e pagarne il prezzo: adesso penso di sapere davvero cosa voglia dire.
Parigi per me finisce qui. Migrazioni interne, o internazionali. Che tanto poco cambia.
Soundtrack: The Ribbon, Rodrigo Amarante
Image : © Witchoria