1948
La mia mamma aveva un vestitino leggero, blu scuro con una balza in basso e il collettino quadrato a pois bianchi piccolissimi, la vita stretta in una cintura di stoffa uguale, che prima di uscire tendeva con cura e due deliziosi sandali che si chiudevano legando un nastrino. Credo che fosse la voglia di primavera a farglielo mettere, quel bel vestito con la gonna sotto il ginocchio, che si era cucito con cura alla sera, pedalando sulla piccola pedana di ferro della Necchi, regalo di matrimonio. Le cose sembravano andare sempre meglio e la guerra, con le ferite e gli strascichi che si era portata dietro, era sempre più lontana. Non doveva più andare a fare la coda al negozio per avere due etti di olio una volta al mese con la tessera e il paese cominciava a produrre a pieno ritmo. Teneva i capelli alla moda fine anni 40, lunghi dietro con i boccoli pieni che si giravano verso l'alto e quella specie di due riccioloni alti che lasciavano scoperta la fronte, un po' come le ragazze del trio Lescano. Prima di uscire per portarmi ai giardinetti di piazza Genova, si metteva un filo di rossetto, vezzo che ha conservato per tutta la vita. Poi magari, facevamo un salto fino in via Dante, se era di pomeriggio a portare a riparare uno dei due paia di calze di naylon che possedeva. L'altro lo aveva indossato, aggiustandosi con cura la riga nera che doveva essere ben diritta lungo tutto il polpaccio. Dovevano essere una cosa preziosa le calze di nylon. Ogni tanto, però, capitava qualche piccolo imprevisto e si formava una smagliatura.Allora venivano tolte con cura, messe in un pacchettino di carta e si andava in quel negozietto dopo il cinema, il ben noto Giasòn, che si era guadagnato quel nome dal fatto che, probabilmente, d'inverno non veniva riscaldato. Dentro il negozio a vista sulla strada c'erano un paio di banconi con delle grandi lampade che puntavano verso il basso e dietro, appollaiate su trespoli, delle ragazze chine sulle calze rotte, infilate su appositi sostegni che con uno strumento che terminava con un ago particolare, riprendevano le maglie e ricostruivano la smagliatura. Te la consegnavano qualche giorno dopo, segno inequivocabile che c'era un gran lavoro da fare. L'usa e getta era ancora lontano dall'essere immaginato. Poi facevamo ancora un pezzo di strada. Io mi fermavo a sognare un po' davanti al negozio di giocattoli La fata dei bambini e magari, prima di tornare a casa, allungavamo fino a prendere due fette di farinata che mi sbocconcellavo, tenendo il cartoccio nella mano mentre con l'altra mi ungevo ben bene dappertutto. A casa, alla sera ci aspettava il caffelatte con i cruciòn, che la gente che aveva studiato chiamava i biscotti della salute o dopo qualche anno, visto che le cose sembravano andare sempre meglio, con i finocchini rotti della Maggiora. C'era la primavera nell'aria e la gonna leggera blu a pois bianchi della mia mamma svolazzava, quando i timidi colpi di vento della sera lo sollevavano un po', mentre lei cercava di trattenerlo con la mano.
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