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Il viaggio e la politica: Maximilien Le Roy

Creato il 20 giugno 2011 da Lospaziobianco.it @lospaziobianco

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Maximilien, tutti i tuoi libri sembrano essere ispirati a viaggi e esperienze vissute. Ci puoi parlare del tuo rapporto con la dimensione del viaggio, ciò che rappresenta per te?
Ci sono in effetti due cose che compenetrano: da un lato, viaggio il più possibile per spinta interiore e per bisogno. Amo fare quello che Cendrars chiama “vagabondare“. Zaino in spalla, e si parte per scoprire e comprendere culture e paesi unici e sconosciuti. E da questi viaggi possono nascere racconti e progetti. È il caso di Fair le Mur, per esempio: ero andato in Palestina per ragioni, direi, politiche e da questa esperienza è nato l’albo. Al contrario, mi capita regolarmente di avere in testa un progetto preciso, e di partire in viaggio per reperire le informazioni necessarie alla sua realizzazione. Sono stato in giro per l’Europa per lavorare su Nietzsche, nell’Est degli Stati Uniti per Thoreau o nel Vietnam per una storia che rievoca la decolonizzazione dell’Indocina. Prossimamente, andrò in Russia per un reportage a fumetti legato ad un poeta russo. E mille altri progetti dovrebbero condurmi ora qui, ora là. È qualcosa d’inebriante che mi permette di coniugare il piacere del viaggio a quello della scrittura e del disegno.

> LoSpazioBianco" />> LoSpazioBianco" />> LoSpazioBianco" height="300" width="205" alt="Il viaggio e la politica: Maximilien Le Roy >> LoSpazioBianco" class="alignleft size-medium wp-image-19767" />Un altro elemento che ti è particolarmente caro è  la storia. Metti insieme le vicende di un personaggio e la vita di tutto un popolo, di una nazione. Come nasce la tua ispirazione e come la gestisci? La bibliografia pubblicata alla fine di Faire Le Mur suggerisce un grande lavoro di documentazione alle spalle.
È l’impostazione di tutto il mio lavoro: partire da un individuo per delineare un contesto collettivo. Non mi vedrai mai parlare di un paese o di una situazione sociale o politica in termini globali e anonimi. Rispetto lo stile “cronaca storica” ma, come metodo di lavoro, non mi attira. Non mi sento legittimato a praticarlo. Non faccio lo storico, né l’analista politico. Di fatto, prendere l’individuo come punto di partenza della storia mi sembra più opportuno. Questo era, per esempio, il caso del libro Hosni. Non avrei potuto trattare mai del fenomeno dell’esclusione e della strada, in modo generalizzato. Non avrei rispettato il mio ruolo, credo, se l’avessi fatto. Ma partire da un incontro con un uomo che è passato per queste esperienze, ecco che la cosa mi sembrava più alla mia portata.
Per Faire le Mur è stata la stessa cosa. La mia ispirazione viene quasi sempre, come hai sottolineato, dalla lettura. Vi dedico indubbiamente lo stesso tempo che dedico al disegno o alla scrittura per l’esattezza. Da una parte lo faccio per un piacere personale, perché non posso immaginare di passare una sola giornata senza avere scoperto delle cose nuove. Da un altro punto di vista, lo faccio per necessità. Quando si toccano argomenti un po’ complessi, in senso cronistorico e politico, è meglio dotarsi degli strumenti adeguati per evitare di dire delle fesserie. Ciò, in effetti, è molto banale, e valido per ogni professione. Non so immaginare un calzolaio che non conosca le regole fondamentali della lavorazione del cuoio. E, a guisa di ringraziamenti o di omaggi, alla fine dell’opera elenco e preciso i libri che mi hanno aiutato a strutturare quello che ho realizzato. E se ciò può offrire spunti ad altri curiosi, perché no?

In Faire Le Mur adotti un stile di racconto che ci ricorda autori quali Art Spiegelman (Maus) e Joe Sacco (Palestina). Questi autori hanno creato, in sostanza, un genere per quel che riguarda questo modo di raccontare all’interno del fumetto. Quali sono le similarità e le differenze tra le loro opere e le tue?
Mi accostano sistematicamente a Joe Sacco e Philippe Squarzoni, e la cosa non mi disturba del resto, perché apprezzo il loro lavoro. Penso che siamo talmente pochi nel campo del fumetto cosiddetto “politico”, che è inevitabile il confronto. Sacco ha una scrittura grafica molto più densa della mia, più corposa. Spiegelman è più simbolico. Forse mi avvicino più al primo, sebbene non rintracci un’influenza. Sacco ha anche la tendenza a mettersi in scena nelle storie, come pure Squarzoni, sicuramente è un bene, ma non è il mio modo di procedere.

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Faire Le Mur si basa su un’esperienza reale diretta? Oppure su quella di persone che hai incontrato in Palestina?
Sono stato in Palestina una prima volta nel 2008, per un laboratorio creativo di disegno, all’interno di un centro culturale in un campo di profughi palestinesi. Allora ho conosciuto Mahmoud, di cui in seguito sono diventato un amico. La storia raccontata è quella che viveva lui all’epoca, ero quindi nella migliore posizione per osservarla. In seguito, ho deciso di trascriverla.

Che cosa ti rimane di questa esperienza?
Così tante cose che mi sarebbe difficile farne un bilancio in poche parole. Se ci focalizziamo sull’incontro con questo giovane uomo, diciamo che mi ha impressionato da un punto di vista morale. Una sorta di grandezza di spirito, di nobiltà interiore, di straordinaria saggezza, un’assenza totale di risentimento. Una persona piena di dignità, e con un grande senso dell’onore, un grande senso dell’onore. Non l’onore cretino del “gallo cedrone”, ma l’onore del ragazzo in piedi che, di fronte alla violenza della situazione nella quale vive, confida non nella pietà o nella carità, ma nei rapporti di giustizia, e che sente di condividere volentieri con le persone che hanno origini o religione diverse dalla sua. Tutto questo ripudiando l’odio. Ho potuto constatare che, almeno in Cisgiordania, questa dignità è piuttosto diffusa. Mi ricordo di un piccolo aneddoto che illustra abbastanza bene quest’aspetto. Va ricordato che in ragione del mio status privilegiato di europeo, nei confronti dell’occupante, posso circolare più facilmente dei palestinesi nella loro stessa terra. Aspettavo ad un checkpoint, dove si passava tre alla volta con tempi di attesa bestiali. La fila si blocca sempre prima del quarto, ed era proprio quando stava per toccare a me. Innervosito, senza riflettere, mi lascio andare a un gesto di stizza. Ed un vecchio signore con una keffieh dietro me, mi lancia uno sguardo divertito, con l’aria di dire “E pensare che sei solo di passaggio, e già ti innervosisci per una formalità quotidiana“. È un’esperienza formativa.

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Libri come il tuo raccontano testimonianze reali ed importanti che i mass-media spesso non trattano. Il tuo impegno è giornalistico ma anche politico. Ma cosa significa per te oggi “l’impegno politico”?
Talvolta mi viene chiesto perché non mi cimento con altri registri, cose “più trendy“, o “meno noiose”! Ho notato che non si chiede mai ad un autore che si occupa di queste cose “più trendy” quando passerà al fumetto “politico”, ma lasciamo perdere.
È abbastanza semplice: ho un approccio all’arte che si inserisce nel reale, e più specificamente nel reale politico. Politica nel senso greco: le cose che riguardano la vita della città (polis). È un ambito veramente vasto e abbraccia molti campi diversi . E può assumere, all’interno del formato “libro”, le sembianze della cronaca giornalistica, passando per la testimonianza, o quelle del romanzesco, della filosofia o della poesia. L’arte per l’arte, l’estetica pura, non la comprendo, in effetti. Così come i racconti egotistici e quotidiani, gli universi piccoli-borghesi, ecc.
Se si vuole deprimermi radicalmente, senza scherzare, bisogna mettermi davanti a dei blog o dei libri definiti “girly“! Non è qualcosa che ho elaborato, è che ovviamente ritengo che una produzione artistica, debba avere un’ossatura reale e debba poter contribuire alla diffusione di ciò che mi sembra essenziale (un progetto per la società o una proposizione “esistenziale”) – questo dal mio punto di vista come autore, perché come lettore o spettatore amo anche temi totalmente apolitici.  Amo molto Sartre laddove è entrato nel legame tra l’arte, il pensiero, e l’impegno militante o politico. Senza condividere tutte le sue battaglie, ma nella connessione entro i due universi, è stato un autore emblematico.
> LoSpazioBianco" />> LoSpazioBianco" />> LoSpazioBianco" height="300" width="228" alt="Il viaggio e la politica: Maximilien Le Roy >> LoSpazioBianco" class="size-medium wp-image-19772 alignleft" />Più vicino al nostro ambito, quello del disegno, prendiamo Gauguin: pittore e difensore appassionato della causa indigena, nelle Isole Marchesi. O, ne parlavo prima, Thoreau: poeta, filosofo e militante per l’abolizione della schiavitù. E potrei citarne altri mille. Questo mi ispira ovviamente non in termini di paragone vanitoso, ma come riferimenti, per cercare di tracciare quello di cui parli. L’albo Gaza, un pavé dans la mer, all’inizio lo immaginavo in relazione a Guernica di Picasso. Tutto il mondo conosce la storia: le forze fasciste assediavano con i bombardamenti la città repubblicana e Picasso ha dipinto quel quadro.
Quando Gaza è stata bombardata, mi chiedevo come, collettivamente, si potrebbe agire con gli strumenti artistici che si hanno a disposizione. E da lì è nata l’idea di fare un “libro a caldo”. Ed, effettivamente, sono – in generale – soggetti che non vengono trattati dai media e dai poteri dominanti. Ragione di più per tentare di aprire una breccia, confidando che una veramente lenta ma certa propagazione possa alla lunga produrre alcuni effetti. Questo vale per i giorni in cui sono ottimista. Per il resto del tempo, viene da chiedermi spesso perché incasinarsi la vita con cose simili, e mi rispondo che forse sarebbe meglio trattare storie meno soggette a polemiche!

> LoSpazioBianco" />> LoSpazioBianco" />> LoSpazioBianco" height="300" width="225" alt="Il viaggio e la politica: Maximilien Le Roy >> LoSpazioBianco" class="alignright size-medium wp-image-19769" />Spesso il fumetto è associata allo svago fine a se stesso. Invece, c’è un altro tipo di opere che mettono in scena la cronaca e l’attualità. Dove ti posizioni in questo contesto?
Questa è una cosa davvero pesante, la riduzione del fumetto a mero divertimento, al suo lato “adolescente ritardato”. Credo che bisogna fare tutto il possibile per staccare il medium dalla sua immagine infantile a cui lo si inchioda nell’immaginario collettivo. Si tratta di una responsabilità condivisa. Il mercato è vampirizzato da produzioni deboli, fatue e commerciali, ed è una scelta editoriale di alcuni si assumono l’onere: il fumetto è prodotto per divertire quelli che non amano leggere. E se non si propone altre possibilità di narrazioni e di racconti, certamente tutto ciò non avrà grandi possibilità di evolversi. Detto questo, per essere onesto, credo che negli ultimi anni la situazione si stia un po’ muovendo. Dunque, chiaramente, io mi inserisco nel secondo filone. Aggiungendo che non disprezzo in se l’entertainment, come dicono gli americani. Ci sono delle cose interessanti in questo ambito, e non aspiro ad un mondo diretto da “seriosi accademici”. Ma che, al contrario, non si riduca il fumetto al solo innocuo svago. Detto questo, credo che la sfida sia persa in partenza su questo terreno. Mi dirigerò, del resto, anche verso altri supporti, e vedrò un po’ cosa avviene altrove in questi altri campi.

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In Faire le Mur si notano due stili di disegno differenti: il tuo vero e proprio e quello del tuo personaggio. Alterni anche sequenze a colori con altre in bianco e nero. Ci puoi parlare delle tue scelte e dei due stili grafici?
Le parti disegnate dal mio personaggio sono state realizzate dalla disegnatrice Maya Mihindou. In quanto a me, ho giocato tra un bicromia seppia e pagine in bianco e nero per i flashback. Sono portato a pensare che la costruzione grafica, nel tratto come nel colore, sia ciò che permette di rendere al meglio l’obiettivo. Non è necessario perdersi in artifici barocchi e saggi di tecnica, per questo genere di storie. Immagino, spero, che lo si definirà uno stile realistico, un partito preso visuale, un poco nervoso, che sfugge lo scoglio del realismo franco-belga vecchia maniera. Tuttavia amerei disegnare in modo meno realistico, ma ho dei blocchi psicologici, davanti alla tavola. Tanto nella fase dello schizzo libero, del bozzetto, riesco ad arrivare facilmente a  destrutturare questo tratto, per giungere a soluzioni meno classiche; quanto, davanti alla tavola, ritrovo questo lato faticoso della rifinitura. Amo, nei fumetti, persone come Gipi, Cailleaux, Baudoin o Christophe Gauthier. Dei disegni più liberi, meno legati alla rappresentazione realistica.

> LoSpazioBianco" />> LoSpazioBianco" />> LoSpazioBianco" height="179" width="124" alt="Il viaggio e la politica: Maximilien Le Roy >> LoSpazioBianco" class="size-full wp-image-19766 alignright" />Se paragoniamo il tuo stile grafico a quello adottato da Maya Mihindou, notiamo che il tuo è netto e definito, mentre il suo è molto caotico. In particolare, ricorda i disegni dei bambini che sono vittime di violenza. C’è un rapporto tra la tua opera e questa sensazione? Volevate sottolineare l’aspetto psicologico dei suoi disegni?
Avevo detto a Maya, oltre che confidavo certamente in ciò che alimenta il suo universo: “pensa a Basquiat“. Lui infatti ha questo lato infantile. Come pure Picasso, Klee o Miro. Amo molto i disegni di bambini: hanno un’energia che si è incapaci di ritrovare, una volta apprese le basi tecniche del disegno accademico. E anche se l’idea non era di rievocare quello di cui parli, il legame lo si può tracciare nel rimando a Basquiat, alla sua violenza e della sua vitalità grafica. E si ritorna, ne avevo parlato, ancora a Guernica. Mi auguravo una rottura netta tra i due stili. Ed amavo molto l’idea di raccontare la scena più violenta del libro, la distruzione della sua fattoria ed il massacro dei suoi animali, attraverso questo disegno di tipo infantile. Volevo evitare la carta del patetico, ed il contrasto mi sembrava rafforzare l’immane assurdità senza nome dell’evento, senza dover ricorrere al dispiegamento realistico di sangue e cadaveri.

> LoSpazioBianco" />> LoSpazioBianco" />> LoSpazioBianco" height="300" width="211" alt="Il viaggio e la politica: Maximilien Le Roy >> LoSpazioBianco" class="size-medium wp-image-19774 alignleft" />Ci puoi parlare del libro che che hai realizzato su Nietzsche e di quello che prepari sul Vietnam, del modo in cui sono nati?
Nietzsche risale a diversi anni fa. E’ buffo, sono arrivato a Nietzsche attraverso un uomo molto religioso. Mi interessavo allora ai libri di Tariq Ramadan. Lontano da me l’idea di convertirmi al monoteismo, ma volevo saperne di più su l’Islam, ed ero curioso di andare a vedere le ragioni dell’allucinante “diabolisation” di questo pensatore. Scoprii che aveva fatto uno studio di tesi su Nietzsche e, all’epoca, ero incuriosito di comprendere quale legame poteva esserci tra un individuo tanto pio ed un ateo altrettanto accanito. E’ così che ho acquistato il mio primo saggio di Nietzsche e che sono stato toccato poco a poco dal percorso di questo solitario filosofo. Il suo lato smisurato, viaggiatore, anticlericale, poeta, volontarista. Ed il suo Zaratustra eremita e predicatore. La voglia di raccontare tutto questo attraverso il disegno mi è venuta naturalmente. Occorre, del resto, che mi domini molto spesso, perché sarei tentato istintivamente di fare dei libri su ciascuno degli scrittori che mi toccano e la cui vita atipica si accorda al mio pensiero, ma non finirei mai! Per il fumetto sul Vietnam, l’evento scatenante è stato un incontro con un vecchio signore che ha disertato l’esercito francese durante la guerra dell’Indocina e che, per onorare la tradizione emancipatrice francese, ha raggiunto il Vietminh. Si è ritrovato alla macchia per anni, ad assicurare la propaganda degli indipendentisti vietnamiti contro le unità imperialistiche francesi. È un genere di percorso davvero inconsueto, e mi sembrava importante farlo rivivere. Io non lo vivo come un episodio desueto e inattuale. Vedo la stessa dinamica che in Faire le Mur o Les chemins de traverse, per esempio. Le molle sono identiche.

Riferimenti:
Maximilein Le Roy, il blog: maxleroy.blogspot.com
Komikazen, festival del fumetto di realtà: www.komikazenfestival.org


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