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Il viaggio più incredibile della mia vita (e anche della vostra)

Creato il 01 aprile 2013 da Nonsoloturisti @viaggiatori

Ricordo che quel lontano 24 maggio era una domenica fredda ma soleggiata. Il professor Otto Lidenbrock, un bizzarro ricercatore britannico, non era una cattiva persona, ma quando si metteva in testa qualcosa non c’era modo di farlo ragionare. Questo, oltre al fatto di essere stato assolto per mancanza di prove per l’omicidio delle sue quattro mogli solo in seguito alla misteriosa scomparsa dei testimoni chiave, aveva contributo ad attirargli ingiustamente contro le antpatie di molti ambienti accademici, ma io non ho mai saputo resistere al suo sguardo tenero e sincero. Mi aveva convinto a partecipare alla sua spedizione senza fornirmi molti dettagli sul viaggio che avremmo dovuto intraprendere – e ancor meno rassicurazioni su come avremmo proseguito una volta raggiunta l’Islanda – promettendomi una meta che nessun viaggiatore al mondo, né ora né mai, sarebbe mai riuscito a eguagliare.

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La nostra destinazione era lo Sneffels, un vulcano dormiente nel cuore dell’isola di ghiaccio alto circa 1500 metri. Dopo aver raggiunto in treno Altona, il distretto più occidentale di Amburgo, il traghetto fluviale battezzato Ellenora ci portò a Copenaghen. Erano mezzi lenti, ma forniti dello spazio sufficiente per trasportare l’attrezzatura necessaria a scavarci la via verso il basso una volta raggiunto lo Sneffels. Nella capitale danese cominciò l’avventura vera e propria, perché dovevamo trovare un’imbarcazione che ci avrebbe condotti fino a Reykjavik. La Valkyrie, una fatiscente nave danese, sarebbe partita il 2 giugno verso l’Islanda. Otto ovviamente ne fu entusiasta, mentre io continuavo ad avere una brutta sensazione nonostante il comandante della nave, il signor Bjarne Schettino Smith, mi avesse rassicurato sull’inaffondabilità della Valkyrie. Tutto sommato fu un viaggio tranquillo, soltanto l’approdo mi lasciò un po’ perplesso.

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Alla fine arrivammo a Faxa Bay, alle porte di Reykjavik. Raggiungemmo i nostri alloggi e, mentre il mio compagno di viaggio studiava la nostra prossima tappa, ebbi modo di esplorare la città. Capitava in quei giorni il Svæðinu Drukkinn – la festa del mozzo ubriaco – nota per l’incredibile quantità di bellissime ragazze che in preda ai fumi del potentissimo liquore di ginepro islandese si concedono con voracità a stranieri bassi e dalla carnagione scura, purché non siano particolarmente brutti. Perciò, non trovando nulla a trattenermi, dopo pochi minuti tornai nella mia cameretta per soffocare le lacrime nel cuscino.

Il giorno dopo siamo stati raggiunti in casa da Hans, la nostra guida, un enorme ragazzo dai capelli rossi e con gli occhi celesti. Hans non era una guida professionista, ma nessuno conosceva il territorio come lui. Allevava conigli siberiani nelle vallate che circondano lo Sneffels, il cui manto è la principale materia prima per cuffie e guanti nell’industria locale. Ogni volta che gli scappavano di mano gli toccava cercarle in ogni angolo, e così è divenuto un esperto di ogni anfratto tra la città e la cima del vulcano verso cui eravamo destinati. Beveva gin e mangiava carne di montone come un visigoto, ma non riuscivo a togliermi dalla testa che in fondo non fosse altro che un bambino spaventato.

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Raggiunta la cima dello Sneffels ci mettemmo in cerca della caverna nel cratere che ci avrebbe permesso di proseguire il viaggio nel sottosuolo. Mentre il mio compagno britannico se la prendeva con la scarsa precisione delle sue carte, fu Hans a trovare la breccia per la nostra discesa: un crepaccio senza fondo che si perdeva nell’oscurità della roccia. Mentre il buon vecchio Otto recuperava l’attrezzatura, Hans rimase a fissarmi con una sorta di benevolenza mista a disprezzo, come volesse dire “ma chi vuoi prendere in giro, sia io che te sappiamo che non ci vuoi andare là sotto…”. Invece ci sono andato “là sotto”, se non altro per non dare questa soddisfazione all’enorme guida islandese. Dopo esserci calati per qualche metro con le funi raggiungemmo un sentiero che si insinuava tra le pareti di roccia e cominciammo a seguirlo con cieca fiducia. Il buio si fece ben presto molto fitto, ma le luci delle torce lasciavano intravedere curiose stalagmiti cubiche e disgustosi esseri striscianti. Dopo qualche ora la temperatura ci aveva costretti ad abbandonare giacche e maglioni e a proseguire con indosso solo la canotta e la maglia della salute.

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Era buio, era caldo, non si respirava… era un buio caldo e soffocante. Da quanto tempo stavamo marciando verso il basso? Un giorno? Un mese? Probabilmente solo venti minuti. Non potevamo far altro che proseguire, fiduciosi che la nostra avventura avrebbe avuto un lieto fine. Non sapevamo più come saremmo tornati indietro, non sapevamo dove eravamo, non sapevamo a che profondità eravamo. Io non sapevo neanche chi stesse continunando a sbattere la mano contro il mio sedere con la scusa del buio, e sinceramente non sapevo se preferire Otto oppure Hans. Tutto quello che sapevamo era che davanti a noi, da qualche parte, c’era la nostra meta. E alla fine eccolo, il momento era giunto. Il caldo lasciò il posto a un freddo tagliente. Il buio venne tagliato da una luce accecante. L’aria tagliata da polvere e sudore si fecce fredda e… tagliente. Non mi piaceva il taglio preso dalla situazione, avevo la sensazione di non trovare parole sufficienti per descriverla.

La fine di un lungo viaggio spesso rivela degli esiti inaspettati, persino inspiegabili. La fine di un lungo viaggio spesso non è altro che l’inizio di un altro viaggio. Ecco allora che la conclusione può lasciare delusi, incerti, perplessi, e si cerca di convogliare i nostri sforzi su un’unica immagine che possa dare un senso a quello che si è appena vissuto. Soltanto quando ci rendiamo conto che l’importante non era la meta, ma il viaggio stesso, possiamo perdonare chi ci ha condotti verso una destinazione così insignificante, perché è anche colui che ci ha permesso di godere di tutto il tragitto.

Pensavo a questo e a molto altro, mentre Otto cercava nel suo vasto repertorio una lingua con cui comunicare con quel curioso essere in divisa e Hans si avvicinava per capire se il suo manto fosse più adatto a confezionare guanti o berretti…

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BUON PRIMO DI APRILE!

Flavio Alagia

Flavio Alagia

Dopo una laurea in giornalismo a Verona, mi sono messo lo zaino sulle spalle e non mi sono più fermato. Sei mesi a Londra, un anno in India, e poi il Brasile, il Sud Africa… non c’è un posto al mondo dove non andrei, e non credo sia poco dal momento che odio volare. L’aereo? Fatemi portare un paracadute e poi ne riparliamo.

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