Angelo Rossi – Vicepresidente UDIAS
di Angelo Rossi – Da quello che si è letto fin qui, le parole chiave che caratterizzano la posizione dei due personaggi che hanno contraddistinto la recente elezione delle cariche sociali del Consorzio Vini del Trentino mi sembrano “clima di fiducia”, che riassumono l’auspicio del neo eletto Presidente e “organo paritetico” che è la decisa richiesta del Presidente dei Vignaioli per continuare ad essere parte attiva del Consorzio stesso. Per intanto sono in stand bay. Sopra queste due espressioni aleggiano le parole non dette da parte dei soggetti che effettivamente condizionano l’Organismo. Non dette perché stanno già scritte nello Statuto, quello di 15 anni fa, e che di fatto assegna i poteri al comparto prevalente delle Cantine sociali. La gente che non segue questi passaggi fa fatica a capire soprattutto perché istituzionalmente si è trovato comodo, o si è stati indotti a non spiegare, magari per non perdere qualche beneficio.
Allora ci proveremo noi, come sempre senza la pretesa di avere la verità in tasca, ma con l’intento di alimentare quel dibattito che è sempre il grande assente dalla scena vitivinicola trentina.
Cesconi per i Vignaioli ha il merito di aver richiamato il Dossier Vino elaborato a fine 2010 dalla Fondazione Mach di San Michele (qui) su incarico dell’allora Governatore Dellai per risolvere una volta per tutte la crisi dei rapporti fra categorie che da anni impediva un armonico sviluppo dell’intero settore. Il Dossier indicava una strada percorribile, ma fu congelato perché minacciava di ostacolare la piega che sul finire degli anni ’90 avevano impresso gli oligopoli di Mezzacorona e Cavit.
Un po’ di storia
Fino al 2000 e per tutti i 50 anni precedenti, il Trentino del vino era stato tutelato e valorizzato da un Organismo interprofessionale e paritetico fra categorie che si chiamava Comitato Vitivinicolo, poi Istituto Trentino del Vino. Nel dopoguerra i mercati erano soprattutto quelli di Bolzano e Verona. Bolzano esportava più del doppio di quello che produceva assorbendo parte del prodotto trentino, mentre sul mercato di Verona si esitava, anche qui sfuso, buona parte del rimanente. L’attività era pertanto in mano al Commercio vinicolo che non andava tanto per il sottile nemmeno coi viticoltori. Era così ovunque. La riscossa per i viticoltori venne con lo sviluppo delle Cantine sociali favorite dagli incentivi pubblici. Quando nel 1949 si fondò il CVT sul modello dei Comitati interprofessionali francesi, i Commercianti trentini (che erano prevalenti) non esitarono a riconoscere pari dignità sia alle cooperative che alle aziende agricole singole. Un tavolo con tre gambe lunghe uguali che qui funzionò subito e che si cercò di mutuare anche in altre regioni d’Italia, ma con scarso successo: evidentemente mancavano uomini di larghe vedute in grado si sacrificare l’interesse particolare per lo sviluppo territoriale. Primo in Italia, il Trentino elaborò subito una Carta Viticola (analitico catasto dei vigneti) che fu propedeutica per la successiva “Politica della Qualità” che a sua volta si concretizzò dalla seconda metà degli anni ’60 con il sistema delle Denominazioni di Origine Controllate. Lentamente il divario con Bolzano andò riducendosi e al commercio dello sfuso subentrarono quote crescenti di imbottigliato, sia da parte dei Commercianti come da parte di Cavit che dal 1957 iniziò a imbottigliare il vino delle proprie associate. Agli ospiti del nascente turismo trentino non era più necessario offrire il vino dei vicini e un orgoglio crescente si notava negli operatori. Se fino agli anni ’70 il tallone d’Achille era rappresentato dalle quote di imbottigliato sullo sfuso, successivamente il punto debole si spostò sulla commercializzazione cui si rispose con una convinta politica delle DO che mise il “Trentino” con le sue varietà e il “Trento” per lo spumante classico sul binario giusto. I vini di fascia più bassa confluivano nel Valdadige o nei tipici per mercati specifici. Si affrontarono così anche i mercati d’Oltralpe grazie a tipologie adatte a gusti che spesso dovevano ancora essere educati. Insomma, un Trentino protagonista nelle aree nazionali più sviluppate e con un nome che andava consolidandosi anche sulle piazze tedesche e inglesi. Problemi e tensioni non mancavano nemmeno a quei tempi, ma quello che oggi si definisce “orgoglio di appartenenza” ebbe sempre il sopravvento, anche sui malumori della parte cooperativa che nel frattempo era cresciuta a discapito dei commercianti. Di questi, se ne salvarono alcuni aggregandosi o trasformandosi in industriali, mentre per una trentina di essi la sorte fu segnata e l’uva dei loro conferitori passò in pochi anni alle sociali. Il CVT ne fu ovviamente investito e nel 1979 si registrò il primo affondo di Mezzacorona che impose un nuovo Statuto. Esso prevedeva una nuova parità al 50%. Non più un terzo dello spazio a ciascuno fra Cantine sociali, Commercianti-Industriali ed Aziende agricole, ma la metà alle Sociali e l’altra metà ai due comparti rimanenti, con il piccolo particolare (purtroppo avvalorato dall’atto notarile) che il presidente sarebbe stato comunque di parte cooperativa. Era il 51% cui mirava l’allora presidente Conci. Non si vollero sentir ragioni, nemmeno quella semplice che non c’erano utili da dividere, ma solo servizi da rendere e il bene-territorio da governare. Il CVT viveva delle quote annuali degli associati e i progetti erano co-finanziati al 50% dalla PAT. Si continuò così per altri 20 anni, fra tensioni crescenti e con un progressivo venir meno dell’azione protettiva dell’Ente camerale, storico “nume tutelare” dell’Organismo. Il passaggio del CVT da libera associazione a cooperativa di servizio per avere maggiore autonomia operativa, del resto, impediva un più palese sostegno. Interessante è che proprio la Camera di Commercio subentrerà dopo il 2000 nelle attività di pubbli-promozione con il “Progetto vino” pressoché totalmente finanziato dalla PAT, fatto questo che permise un notevole risparmio alle Aziende, ma forse con risultati diversi. Con il 1999 si chiuse, comunque, l’epopea del CVT /Istituto Trentino del Vino Scarl per lasciare il posto al nuovo Consorzio Vini del Trentino.
Un po’ di cronaca
Quest’ultima organizzazione, arriviamo così ai giorni nostri, è una delle forme imposte dalla disciplina europea per la tutela e la valorizzazione delle zone a DOC (e IGT/DOCG). Essa prevede che l’interprofessione si esplichi non già fra “corporazioni”, ma fra “professioni”, ossia quelle dei viticoltori, dei trasformatori e degli imbottigliatori. Va da sé che in Trentino la maggioranza è della cooperazione in tutte tre queste branche, per cui qualcuno dei commercianti-industriali e delle aziende agricole aderì obtorto collo. Successivamente del resto, subentrò il cosiddetto “erga omnes” che affida ai Consorzi riconosciuti il controllo delle DO anche sui non associati, laddove i consorziati abbiano la prevalenza nel territorio. Ma al di là della forma organizzativa fra categorie (che hanno continuato ad essere corporativamente separate), negli ultimi tre lustri non si possono dimenticare gli effetti indotti dalla globalizzazione dei mercati, un appuntamento cui le Cantine trentine non si sono certo fatte trovare impreparate, anzi, sono state protagoniste assolute fin dalla prima ora. Una missione esplorativa dell’ITV sulle due coste degli USA aveva, infatti, evidenziato l’impossibilità di affermazione, come territorio, del piccolo il Trentino su un mercato tanto vasto, per cui si convenne sull’opportunità di lasciarvi operare le singole imprese in grado di fornire i prodotti richiesti da quei mercati. L’area di possibile affermazione territoriale si confermò circoscritta nei 3/400 km, la stessa del consolidato bacino turistico.
L’ America non vedeva l’ora di sostituire i costosi vini d’origine francesi con più convenienti vini varietali che potevano venire d’ogni dove. Globalizzazione significa anche semplificazione, per cui le varietà che trovarono posto sulla lista degli ordini stavano tutte su una mano: Chardonnay, Pinot grigio, Merlot, Cabernet sauvignon e Syrah. Ci furono integrazioni e sostituzioni, ma i principali competitors trentini si concentrarono notoriamente sul Pinot grigio che poteva convenientemente essere reperito anche in Veneto e per di più con l’indicazione geografica vincente delle Venezie. Fu un successo crescente che permise di ben remunerare cantine e viticoltori anche per i loro conferimenti diversi dal Pinot grigio. Non a caso si cominciò a parlare di sistema drogato, auspicando cambi d’indirizzo e ritorno alla valorizzazione del territorio. Il grande assente fu (ed è) la politica vitivinicola della PAT che decise, per non danneggiare la gallina dalle uova d’oro, di lasciar fare agli oligopoli che – condannati a crescere – non ebbero scelta: Pinot grigio ovunque, nei vigneti come alle assemblee annuali.
In questo scenario è ovvio che a farne le spese fu in primis la DOC Trentino con il suo variegato ventaglio varietale e l’impegno per il suo consolidamento registrò una battuta d’arresto. Certo, per rinforzarla s’introdussero nel disciplinare di produzione la qualificazione di “superiore” e alcune sottozone specifiche, ma il cuore della maggioranza dei viticoltori batteva dalla parte del portafoglio, cioè del PG. Il tutto mentre a nord si consolidava caparbiamente il Sűdtirol e a sud esplodevano Amarone & C. dove crebbero tanto i valori delle uve, quanto e soprattutto quelli fondiari che sono il vero patrimonio da lasciare alle future generazioni. Per inciso, ricordiamo che per reazione i Vignaioli trentini abbandonarono per primi il sistema delle DOC per abbracciare quello delle IGT con l’indicazione Vigneti delle Dolomiti: un bel marchio a supporto dei brand aziendali, ma con scarse ricadute sul territorio.
Il Consorzio Vini, dominato dal pensiero unico, si limitò inizialmente ai servizi e ai controlli di legge, salvo accorgersi cammin facendo che la tutela senza una conseguente valorizzazione delle produzioni non ha un senso compiuto. Così chiese ed ottenne l’incarico della pubbli-promozione sottraendolo alla sfera istituzionale pubblica. Come nel 2000 si disperse l’organico ITV di 7 persone con un’antenna a Brighton in Inghilterra e un bistrò promozionale che si autofinanziava a Monaco di Baviera, così i passi più recenti non sembrano guardare ad un orizzonte ben definito. Ad es. lo “spumante di montagna” non può incantare un Paese pieno di colli e monti vitati, e meraviglia che seri operatori si facciano convincere da furbi consulenti che si guardano bene dal condizionarne il successo all’accettazione di una elevata linea altimetrica di produzione. Lo stesso vale per il nascente progetto dei vini trentini “sostenibili”: un aspetto, questo, che fra poco bisognerà dare per scontato e che soprattutto non coglie i veri cambiamenti che si rendono necessari.