“Mi chiamo Sigmund Freud, ho 5 anni e io esisto”. Mentre Dio non esiste, è un’invenzione dell’uomo. Così la pensava il dottor Freud, padre della psicanalisi. Ma cosa accade se una notte Dio fa visita a Freud, se l’invisibile si fa visibile?
C’è quindi un grande testo dietro la grande ma non grandiosa (scenicamente) messinscena di Valerio Binasco. Il suo Visitatore è uno spettacolo forte, magnetico, ipnotico, di quella ipnosi praticata anche dallo stesso Freud. Binasco ci conduce in un luogo della mente, in una casa “accennata” che lascia allo spettatore la possibilità di (s)comporla a piacimento. Una scena dechirichiana, che potrebbe svanire o completarsi d’un tratto, e una luce a vista, come in Brecht, a dirci che è teatro, finzione, Dio per Freud come questo face to face.
Essere o non essere, credere o non credere, ragione e sentimento (religioso). Il visitatore ci interroga tutti, uno ad uno, credenti e non, poiché ciascuno in quel visitatore ci vede quello che vuole: paure, dubbi, ossessioni, conforto. Affiancato dai bravi Nicoletta Robello Bracciforti e Alessandro Tedeschi, Alessandro Haber e Alessio Boni regalano al pubblico una prova concertata di grande intensità. Il primo, passo barcollante e voce cavernosa perché malata, padroneggia la scena con l’umiltà del grande attore, in un personaggio statuario che sa concedersi flash di spontanea comicità. Il secondo è un comprimario di spessore in un Dio-uomo che pare un Lucignolo saltellante e indomabile, euforico nel provare la consistenza di un corpo umano, che trova cifra stilistica di una performance ben studiata in quelle gambe sempre in aria quando non toccano terra e sempre attaccate quando seduto come fossero inchiodate alla croce del suo Figlio.
Il visitatore è quindi uno spettacolo completo, di grande teatro, d’autore, d’attore e di regia. E in qualche modo squarcia la “quarta parete” con una sorta di seduta psicanalitico-religiosa collettiva per tutto il pubblico presente in sala.
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