Il vuoto e l’eccedente (seconda parte)
12 maggio 2015 di Paolo Marzano
“filosofale”… è la pietra che significa
“Se tu potessi entrare in una bella cittade
o in uno bello palagio agevolmente,
e tu non volessi, grande negligenza sarebbe questa.”
Giordano da Pisa
(Pisa 1260 – Piacenza 1311)
La frase che ho scelto per introdurre queste mie riflessioni è di Giordano da Pisa. Una breve ma intensa citazione riportata con lo scopo di preparare ed avvicinare il lettore ad un concetto importante legato a quello che può identificarsi come un vero e proprio ‘percorso’. Osservare un’opera d’arte è come esplorare una bella città o come scoprire lentamente le stanze di un palazzo di cui ci sono letteralmente spalancate le porte. La curiosità di entrare e di vedere corrisponde all’azione fondamentale di accedere ad un linguaggio nuovo e pretende un’attività di grande coinvolgimento che si realizza predisponendosi ad indagare quella città, quell’edificio, quelle stanze e dunque quell’opera d’arte.
Ammirare l’ambiente, il paesaggio, i monumenti o fermarsi per osservarne le caratteristiche, incuriosirsi facendo scivolare lo sguardo e ‘meditando’ sui repentini cambiamenti di direzione o ripercorrere il labirinto dei confini dell’opera con lo spazio che la comprende o nel quale essa dilaga, circoscriverne con la sola visione i ripiegamenti, le anse che riescono a privilegiarsi della luce o giocano a rimpiattino con l’ombra, sentire il ‘graffio’ della superficie scabra, comprendendone le asperità della materia, con il suo diversificato trattamento di lavorazione, fa parte, integrante del discorso che cercherò di introdurre, proprio servendomi della premessa, (immaginiamola scolpita sulla soglia, di questo viaggio) che il frate domenicano intendeva concettualmente, in quel tempo, far conoscere.
Ed è per questo che, l’eventuale rifiuto di accedere all’opera (d’arte), pur avendone la possibilità, risulterebbe veramente infruttuoso per la nostra personale e sensibile crescita. Averne l’occasione, possedendo le chiavi, quindi gli strumenti, la lucidità, l’intelligenza e non riuscire poi a porsi nella condizione di esercitarsi o, meglio ancora, di ‘sperimentarsi’, con – dividendola, di certo non permetterebbe una totale conoscenza dell’oggetto in esame e non contribuirebbe in nessun modo all’arricchimento per conoscere meglio noi stessi. G. Kubler ha sostenuto che la ‘sensibilità’ è il canale preferenziale di comunicazione con l’universo, aumentarne la capacità, vuol dire ampliarne la conoscenza. E questo, aggiungo io, oltre ad essere prerogativa dell’invenzione artistica, può praticarsi già dalla piccola/grande scala della sola osservazione dell’opera da parte dello spettatore coinvolto.
Oppure potremmo decidere (altro tipo di ‘intrigante’ accesso) di considerare visivamente, ma di approfondire questo o quell’altro livello di significato, ampliando le possibilità di interpretazione, traduzione e dunque di espressione. Vediamo allora, come funziona l’allestimento di quel ‘ponte’ che lanciamo continuamente sui vuoti relazionali intorno a noi, per consolidarne il contatto e agganciare così nuovi percorsi; l’approccio ai segni, alle forme, alla materia, quindi, alle opere, avviene in questo modo.
Andremo a scandagliare esempi pratici, immagini e significati che questa parte di territorio mette a disposizione come testi da consultare lasciando ad ognuno la possibilità e il tempo di accedervi.
Sulla base della prima parte di questo lavoro e di altro materiale che i lettori avranno avuto modo di leggere, in quanto pubblicato per CULTURA SALENTINA – Rivista di pensiero e cultura meridionale, potrei iniziare questo scritto calandomi direttamente nel vivo della questione, magari adoperando l’immagine che ho composto utilizzando alcuni dipinti di Paolo Veronese nei quali alcuni particolari mi hanno aiutato a far percepire meglio il concetto, non marginale, delle “colonne inglobate”, quindi, comunicare fin da subito, quale sia il ‘tono’ delle riflessioni e su quali concetti, fondati sul potente strumento di ri-simbolizzazione, andremo a ragionare.
2 LA COLONNA INGLOBATA – L’approccio simbolico della presenza del ‘rudere’, è importante per il ‘palladiano’ Paolo Veronese. La colonna appartiene al passato e al potere consumato di altri lontani dèi, allora diventa l’appoggio (fondamento) delle strutture per la ‘nuova’ capanna che offre riparo al Cristo/bambino. La sua nascita e il prostrarsi dei Re della terra, indicano il futuro del mondo che si rinnova. La colonna/rudere diventa ‘strato’ sul quale far vivere un’altra civiltà. Il passato rimane ingabbiato, avviluppato, “inglobato”, ma visibile, esposto a monito del ‘passaggio di stato’, del regno a venire. Quel ponteggio e quelle travi, allestiscono, dunque, un paesaggio/passaggio teologico “fondamentale”. A – Adorazione dei Magi, Paolo Veronese, 1573, olio su tela, 355×320 cm, National Gallery, Londra. B – Paolo Veronese, Adorazione dei Magi Chiesa di Santa Corona, Vicenza. C – Soluzione della “colonna inglobata” sull’angolo destro (fianco) della facciata di Santa Croce a Lecce, in corrispondenza dell’allegoria superiore, della Fortezza (di cui la colonna è un attributo). D – Pilastro/colonna angolare del Sedile/Seggio, in piazza S. Oronzo a Lecce.
Forme, segni, significati adottati, sia dipinti e sia scolpiti assolutamente attinenti all’espressione più viva del corpo comunicativo del periodo della controriforma. Infatti, si osserverà, e ritengo il mio contributo (spero) utile ad una migliore lettura di questo territorio, quel particolare periodo, determinante per il Salento, in quanto ha lasciato la sua più complessa e sofisticata strumentazione comunicativa; una maniera metodologica di rielaborazione dei termini e delle interpretazioni utili a proporre nuova ipotesi di ricerca e studio fondato su varianti da de – codificare o decriptare per cercare di spiegare come una terra possa elevarsi ad opera d’arte e costruisca, dal contesto, un paesaggio vivibile di affermata qualità. Vedremo infatti come la semplice, ma densa scrittura, meravigliosamente si trasformi in pietra e quindi, come la parola davvero può, solidificandosi, mutare in un ambiente. Occorre perciò essere in grado di riconoscerne le rinnovate caratteristiche formali, percependone il grado di rielaborazione, fino a identificarne l’evidente traduzione testuale/materiale delle componenti adottate.
Nel maggio di due anni fa riportavo alcune mie riflessioni, scritte perlopiù come appunti a margine di un argomento inerente l’interessante ‘configurazione’ geo-artistica di una precisa zona che riesce, secondo me, nonostante la fisiologica stratificazione temporale, a distinguersi, con notevole ed evidente forza, alimentando la sua dirompente comunicabilità. Ed è proprio su questa inesauribile proprietà relazionale, data dall’osservazione delle opere d’arte di questa zona, che serenamente disquisiremo.
3 TRE BACCELLI CHE NASCONO DALLE VOLUTE – A sinistra – Vignola, “Regola delli cinque ordini d’architettura” (1562), tavola XX, in particolare la costruzione della voluta ionica. Al centro – particolare della decorazione di Pellegrino Tibaldi a Palazzo Poggi “Episodi della vita di Ulisse”. A destra particolare del coronamento della nicchia superiore della facciata dell’Immacolata di Nardò (Le)
Seguendo gli appropriati percorsi d’indagine e trovandosi di fronte ad un oggetto d’arte, appare chiaro come occorra, ancora una volta, predisporsi in maniera adeguata per comprenderne, nel modo migliore, il messaggio trasmesso.
Per questo occorrono continui confronti fra dettagli di opere, ad esso contemporanee, già esistenti in altri luoghi, formalmente coincidenti, anche cronologicamente (come nel nostro caso), ma per la maggior parte delle volte (succede), non assimilabili allo stesso periodo. Le indagini perciò sono necessarie a comprenderne lo sviluppo, conseguente alle loro probabili e molteplici varianti realizzate nel corso del tempo. Cercando di non perdere di vista, ciò che lega e raggruppa le ‘norme’ della pre/dominante cultura diffusa, sia in ordine agli esempi già costruiti e sia in ordine ai trattati (documenti) che in Italia e in Europa erano ben conosciuti.
I segni (oggetti) “mobili”, dunque, rafforzavano le esperienze, le pratiche artigianali, completandone i codici, manifestando lo spirito artistico di quel tempo e di quell’esperienza costruttiva che incredibilmente, di questi, si autoalimentava. ‘Prodotti’ pronti a mutare col tempo, ma anche a riaggiornarsi sulla base di modelli in transito che, con mirabile bravura, proponevano soluzioni d’altissimo livello comunicativo, diventando prove preziose, pietrificate, a conferma, dell’evidente colta raffinatezza e degli abili scalpellini della zona.
4 INFIORESCENZA – In questo caso i baccelli (sempre tre) diventano foglie molto simili per il tipo di lavorazione e dettaglio al bassorilievo all’ingresso della chiesa del Carmine a Nardò
La scarsità e perlopiù l’assenza di documenti, come nel nostro caso, possono purtroppo contribuire a rendere vana la ricerca e la costruzione di reali frammenti di realtà storica. La situazione pone non poche questioni sulla necessità di una ricucitura delle poche tracce che, le varie ipotesi, se ben formulate e circostanziate, possono concretamente tentare di strutturare.
Altre volte ancora, l’indagine su una serie di “oggetti” si riferisce ad un unico elemento che, pur nella sua semplicità, si ‘trasforma’, muta sotto gli occhi dell’osservatore, soprattutto quando lo studio dei dettagli, permette di rinnovarne il suo ambito di applicazione o di selezionarne l’essenza compositiva originaria. Allora, esso si presenta come prodotto ‘notevole’, in grado di perfezionare le convincenti caratteristiche comunicative, utili a farlo diventare elemento di fondo, posto elegantemente a corollario.
Il tempo consuma la storia (degli oggetti e delle opere d’arte), proprio come il fluire continuo dell’acqua di un fiume, finisce per smussare, rendere agevole, ‘arrotondare’ il suo letto e forse così facendo, ‘indulgere’ sugli eventi che rallentano o impattano duramente con gli spazi necessari al suo percorso, le funzioni, i significati, le opere, le soluzioni, le idee.
E allora succede che, proprio là dove il tratto della narrazione appare spezzato di netto, il tempo, poi, realizzi un’ imponderabile e sensibile riconfigurazione (con la passione, la ricerca e lo studio), aggiungendo, secondo quel principio di sublime e creativa sospensione, le necessarie ipotesi conclusive, conseguenti ad un confronto inatteso, proposto dall’intuizione o dal metodo di traduzione, costruendo così probabili ‘ponteggi’ utili ad un percorso che articoli (riempiendo) proprio quel vuoto.
5 GIGLI CHE NASCONO DALLE VOLUTE – Da sinistra; giglio o simile che nasce dalla voluta nel particolare della facciata di S. Domenico a Nardò (anche l’immagine ultima a destra è della stessa facciata), giglio agli angoli dell’archetto polilobato tra colonne del tempietto dell’Osanna a Nardò, giglio che nasce da volute sul coronamento della nicchia, al secondo livello, sulla facciata della chiesa dell’Immacolata di Nardò (stesso cantiere o maestranze aggiornate, facenti parte del ‘team’ del costruttore Tarantino? Molto Probabile! Ho già evidenziato per la prima volta come i volti delle 4 Virtù del Mausoleo degli Acquaviva d’Aragona possono facilmente confrontarsi con quelli dell’angelo e della Vergine, dell’Annunciazione sulla facciata della chiesa del Carmine molto attinenti ai volti degli erma e degli omuncoli/animule, sulla facciata del S. Domenico di Nardò)
Occorre perciò essere capaci di riconoscerne le rinnovate caratteristiche formali, percependone il grado di rielaborazione, fino a identificarne l’evidente traduzione testuale/materiale delle componenti adottate.
Lo studio dell’immagine stessa, diventa perciò un’insostituibile fase di confronto serrato tra i diversi casi presi in esame e lo studio della situazione generale del periodo storico, a cui quell’oggetto rimane contemporaneo. Si giunge quindi ad evidenziare le ‘attinenze’, ricomponendo i tratti di ‘testo’ che, senza tale procedura, farebbero con-fondere o peggio equivocare le diverse lingue/voci. E’ anche utile risvegliare concetti sopiti che, col passare del tempo, si sono persi tra gli strati o fra i livelli di significato dati alla pietra. Questo è uno dei motivi per cui occorre sostenere a tutti i costi, la salvaguardia delle opere d’arte (preservandone anche, se non, soprattutto, i dettagli) cercando di contenerne l’usura, insistendo nel sottolineare l’importanza della loro qualità comunicativa e continuando ad evidenziare la funzione culturale sbiadita che prima invece completava il loro racconto.
La loro preziosità, comprenderemo, sta proprio in questo ‘dialogo’ inatteso, tra estranei (’emittente’ e ‘ricevente’, le cui identità alternano domande) che s’incontrano predisponendosi al confronto.
Pietre parlanti, dunque? Pietre dalle quali trarre ricchezza? Pietre che selezionano linguaggi comprensibili da tutti? Pietre che sono capaci di indicare importanti messaggi? Pietre che sintetizzano concetti, adoperando facili premesse, corpose discussioni e profetiche conclusioni? Certo, lo fanno e, se studiate approfonditamente, si esprimono anche con la migliore dialettica.
6 UNA FACCIATA… IN SOSPESO – Ritengo essenziale far comprendere un concetto importante sostenendo il rispetto della storia delle opere d’arte, del loro studio, della loro ricerca e dei segni che li raccontano (anche dei disegni). Infatti, la non completezza della presentazione del monumento o dell’opera d’arte, ritengo sia già una forma di ‘usura’ dell’oggetto e della conclusione ‘deformata’ che ne fa percepire in maniera errata le conclusioni. Non comunicare il suo ‘passaggio’ progettuale, è un tipo di degrado provocato, come un ripristino mancato o una parte di storia ‘rotta’, strappata o ‘falsata’ che lascia opere… non compiute (concettualmente). Il caso del progetto della facciata della Cattedrale di Nardò va raccontato inserendolo necessariamente nel processo compositivo usato dall’architetto in alte opere napoletane; per come è moderatamente impaginata e per i registri decorativi applicati, questa condizione, è essenziale
L’importanza della storia dell’arte e dell’architettura rende merito ai suoi capolavori quando questi, sono messi in grado di parlare alle sensibilità attente, presentando e raccontando le fasi principali del loro tempo e dell’ideazione. La complessità degli accadimenti, di certo, va selezionata, ma con molta, cura e attenzione. Mi piace ricordare come, ad esempio, la facciata della Cattedrale di Nardò (Le) del 1725 è, in effetti, importante (difficile leggerlo sui testi di storia locale) per la sua realtà di “passaggio progettuale” facente parte della ricca ricerca compositiva che andava differenziandosi, sempre più, su diverse varianti realizzate o ancora da realizzare, in altri luoghi, com’era stabilito metodologicamente nella fantasiosa esperienza di creativo architetto napoletano, Ferdinando Sanfelice (vedere a tale proposito i suoi meravigliosi disegni conservati nell’archivio del Museo di Capodimonte). Un minimo approfondimento che avesse una sufficiente dose di curiosità, come propulsore conoscitivo, senza neanche scomodare il reale peso e valore della storia dell’architettura, verificherebbe con facilità che, quella facciata in particolare, poteva essere pronta già dieci anni prima del suo progetto di realizzazione. Realtà, questa, assolutamente non marginale ai fini della matura strumentazione espressiva posseduta e ottimamente gestita, dall’architetto napoletano. Gli esempi sono tanto eclatanti, quanto semplicemente evidenti. Il ‘passaggio’ dovuto (ma mancante), infatti, dovrebbe pretendere la considerazione di soluzioni ‘di facciate’ come quelle di San Lorenzo Maggiore a Napoli, di S. Maria della Redenzione dei Cattivi oppure della Nunziatella.
La differenza o il suo stato di ‘variante’ tipologica, andrebbe osservata nell’uso degli ordini classici dei due livelli ‘calligraficamente’ ben scanditi. D’altronde le stesse componenti adottate, proprio negli apparati decorativi, si riconoscono benissimo nei riferimenti alla chiesa di Sant’Ignazio a Sulmona del 1713 (anno di approvazione del progetto per la scelta degli ingressi) o della Nunziatella iniziata nello stesso anno. Insomma, la dinamica progettuale promuove la storia dei monumenti (e dunque delle opere d’arte) come un percorso in continuo aggiornamento, con allegate varianti compositive, arricchite di nuove soluzioni. In questi casi, il termine da adottare , risulterebbe essere quello di “assemblaggio” di soluzioni da taccuino, già sperimentate per cui ‘maturate’. Ecco il motivo per cui la storia dell’arte rimane asimmetrica quando la si sfiora solo superficialmente senza, poi, dare le opportune indicazioni sul processo formativo delle soluzioni.
Alle indicazioni poste in premessa, nella descrizione di un’opera, dunque, vanno allegate le notizie del contesto storico che ha generato proprio quell’intuizione, ‘accolta’ tra tante varianti scelte o costruite, da cui quell’oggetto ha la forza di distinguersi, dando un preciso valore alla storia, utile alla sua funzione di trasmettere conoscenza. Il progetto infatti, se così presentato, è letto come una colta traduzione di un contesto che ritrova elegantemente gestiti, quegli ‘ornamenti’, completati da ‘segni’ e ‘pentimenti’, facenti parte di ricerche e sperimentazioni dalle quali sono stati generati. L’esempio della soluzione della facciata della cattedrale di Nardò, ritengo, sia proprio il caso di sottolineare, rappresenta la conferma di quanto necessiti evidenziare il processo progettuale, con il ‘complesso’ di varianti, dal quale è derivato o che da esso sono derivate.
7 LA BUONA “MANIERA” DI TRATTARE L’ ANTIQUARIA – L’ interessante caso di Nardò nei particolari e nel trattamento scultoreo dell’antiquaria aggiornata al migliore linguaggio del tempo
Qualunque luogo contenga elementi in grado, se organizzati, di tracciare una ‘storia’, quindi, il probabile percorso di un territorio, ha l’obbligo di rappresentarne le varie fasi o epoche, catalogate, ben descritte, classificate, ma anche (se esistono le sensibilità competenti a leggerle) le energie “in potenza” recuperate dal suo contesto e con lungimiranza da disegnare per il futuro. D’altronde, per esempio, un Museo Diocesano (‘erigendo’ quello di Nardò) va interpretato, ritengo, come un reale “sistema operativo” dinamico, di cui le interfacce presentate, hanno riferimenti in-diretti, che colleghino (le icone) gli oggetti posti nelle teche, direttamente agli ambiti rintracciabili nel luogo di provenienza e agli spazi riferibili sul territorio. Questo particolare è determinante ritengo, maggiormente e specialmente per Nardò, dove il discorso dovrebbe coinvolgere i fondamentali concetti inerenti ai percorsi di una chiesa “sterna diffusa”.
Importante sarebbe non isolare o perdere la visione generale del sistema comunicativo esistente in questi luoghi, ma identificare quali percorsi fisici e spirituali, conseguenti al carattere del rito, siano stati scanditi e definiti come chiari ‘poli’ della devozione e hanno determinato la storia della zona; dall’antico castello normanno, alla vicinissima antica abbazia, alle sue trasformazioni nel tempo, la triangolazione delle zone degli ordini monastici con al centro la piazza civica, quindi la Guglia, il Sedile, il tempietto dell’Osanna, la facciata di San Domenico, ecc…, ma anche i dipinti esterni che ho, in altri scritti indicato, sulle mura di alcune chiese. Appena percepibili, ancora oggi, come sbiaditi fotogrammi, su quinte murarie di città e(s)terne che raccontano quel percorso, esaltante all’origine, ma silenzioso in quanto incompreso e ancor più inespresso. Ritengo l’accezione della città di Nardò come una galleria d’arte esterna o un Museo Diocesano diffuso a cielo aperto (in quanto, è questa la migliore caratteristica che lo differenzia da tutto il resto), per ‘afferrare’ con la sensibilità (somma dei sensi attivi), ciò che in una teca, anche se ben lucidata, non comunicherà mai cosa significhi vivere in una città dai ‘segni’ parlanti.
Il carattere prettamente devozionale a Nardò, ha coinvolto l’abitato più di quanto si voglia ammettere e raccontare. Le tracce, almeno quelle interpretabili, indicano proprio questa realtà. E, per chi vuole o si appresterà in futuro a leggerle, il campo è ancora apertissimo. Altrimenti è chiara l’omologante forma di provincializzazione di un persistente degrado esterno, al quale si contrapporrà l’opulenza riservata a pochi, dello scrigno prezioso che si perde in una metafisica città vissuta solo dall’interno museale. In quel caso collaborante all’aridità di oggetti, che non risuonano o non si leggono più sulle facciate, sui monumenti, sugli edifici e sugli arredi, come è veramente stato.
La città, ‘internata’ in musei e visibile solo ‘sotto teca’, sarebbe da evitare. Dovrebbe, invece, essere collegata direttamente (simbioticamente), anche al territorio con le appropriate, invisibili, rizomatiche tecnologiche periferiche multimediali, oggi possibili.
Proprio da questa riflessione nascevano e titolavo la serie di scritti “Salento delle città apparate”. Il termine mi sembrava appropriato in quanto identificava quelle caratteristiche paesistiche e urbanistico-architettoniche di cui, i diversi centri abitati di questa zona vezzosamente si fregiano. Dopo alcuni studi supportati da ricerche e confronti, constatavo l’evidente esigenza e dunque la necessità concreta, di focalizzare meglio, ritengo, l’utile orientamento di questo territorio. Sulla base dei risultati di una pur modesta e sicuramente incompleta, analisi (ma quale indagine, infondo, non lo sarebbe, trattando un ‘approdo’ storico-culturale e artistico-concettuale come il Salento!?) agganciandola ai flussi culturali di riferimento europeo che certamente, quella terra, ha saputo pregevolmente adottare, selezionando e affinando i propri sistemi di comunicazione e figurazione, specialmente quando occorreva, il salto di stato (dal legno, dalla carta, dal documento da trattato, dal dipinto per farsi poi pietra). L’indicazione era sostenuta da una serie di osservazioni che indagavano dei particolari ‘episodi’ artistici e discutevano (a volte anche ridiscutendo e aggiornando) le loro probabili caratteristiche, descritte sulla base di assonanze stilistiche, appartenenti, e questo lo confermo, ad opere d’arte o d’architettura, partecipanti contemporaneamente ad una cultura diffusa sovranazionale alquanto omogenea.
In pratica, ritengo che i rapporti tra la documentazione esistente a livello europeo e alcuni esempi determinanti rintracciati in alcuni dettagli, di opere d’arte importanti, individuati nel territorio salentino, siano stati molto più ‘stretti’ e ‘diretti’ di quello che si possa pensare.
8 PENDENTE DI “MANIERA”, QUASI LIBERTY – Primo elemento riconoscibile; la ghirlanda che circonda l’erma fogliaceo del tipo ‘virile’, cade definendo una soluzione con linea paradossalmente quasi liberty, ma che troviamo come vezzoso stratagemma per impreziosire le cornici degli episodi mitologici a Palazzo Poggi nelle storie di Ulisse di Pellegrino Tibaldi. La ghirlanda parte dal centro delle volute, sulle spalle dell’erma, evidenziandone però l’attacco, in particolare con con laccio o corda, essa cade appesa sulla parte anteriore di minor sezione che va rastremandosi fino all’artiglio di base (come da schema diffuso nella storia classica degli erma) o al ‘bouquet’ di frutti (melagrane) o ancora, alla voluta che chiude la verticalizzante composizione
Torniamo, a questo proposito, ai 13 erma fogliacei della facciata del S. Domenico di Nardò, presa in esame diverse volte, la cui funzione di sostegno si completa con la testa che corrisponde a mensole sulle quali insistono le “regole” (domenicane) sostenute o indicate dalle figure definite di omuncoli (Manieri-Elia /Calvesi 1971), anìmule (Paolo Marzano 2014). Una mia traduzione proposta in passato, ma in questo scritto ancora più aggiornata, è quella di leggere l’unione di due mondi e metodi espressivi (contatto tra civiltà artistiche), in un unico fantastico monumento, come la preziosissima facciata di S. Domenico a Nardò. Uno spazio scultoreo, dunque, in grado di ‘significare’ in nuce, la migliore maniera che caratterizza, contemporaneamente, delle importanti opere in Italia e in Europa della seconda metà del ‘500, egregiamente in continuità con la tradizione bizantina che rimane una potente e persistente traccia territoriale, nella storia dell’evoluzione artistica di queste zone. La preziosità del monumento non ha pari in questo senso. L’eredità diretta di una forte presenza culturale che si rinnova elargendo capolavori, purtroppo ancora non ascoltati come si dovrebbe.
Gli erma destano sempre molta curiosità per la loro postura e la particolare foggia. Anche se la lettura iconografica/iconologica diventa sempre più chiara. Gli attributi, i segni, i caratteri e i simboli; l’intera composizione mancava di una traduzione ‘univoca’ e funzionale, che a me piace chiamare “traduzione di prossimità” (che coinvolge, di altri luoghi, le espressività e le arti di maggiore diffusione come pittura, artigianato, arredi, oggetti liturgici, oreficeria, ecc…) e che qui nel Salento e a Nardò si presenta con la scultura (ho già parlato, a questo proposito, qualche anno fa, della proporzionalità anatomica e decorativa di monumenti come la statuaria della facciata di S. Domenico e il Mausoleo dei Duchi Acquaviva d’Aragona a Nardò che in zona si differenziano da altre ‘deboli’ rappresentazioni a cavallo tra la prima e la seconda metà del XVI secolo. Naturalmente si attendono altre letture che possano avvalorare la mia ipotesi, rinnovarne le accezioni migliorandone le visioni, o azzerarne le conclusioni: in tutti i casi, la nostra terra ne guadagnerà per la ricerca, le descrizioni e le intuizioni e i confronti apportati.
Del concetto fondamentale che sviluppa il significato dell’intera opera, di cui credo di aver dato ampio risalto in altri scritti, continuo a leggerne soluzioni scultoree originali e raffinatissime. Non possedendo descrizioni o documenti, la storiografia, per troppo tempo ha scelto di non vedere (forse per la mancanza di quella sensibile curiosità e l’interesse ad analizzare testi/oggetti ‘antiquari’, appartenenti ad una vera e propria filologia, diffusi all’epoca della stessa costruzione della facciata) ed a non ricercare o seguire le tracce ed i riferimenti diretti palesemente ad un’ architettura/arte, che ritengo, per nessun motivo da considerare “minore”, Manieri-Elia ’71 docet. Naturalmente, anche in questo caso, come altri già affrontati e da me trascritti in passato, sono elementi perfettamente “aggiornati” alle soluzioni diffuse, nella penisola, in quel momento storico. Fonti pietrificate incredibilmente preziose e ricche di particolari minuti e dettagli che riproducevano fedelmente oggetti antiquari, forse già “dipinti” in altri luoghi.
Ritengo riferire gli Erma ‘antiquari’ della facciata di San Domenico, all’elaborazione di tracce conformanti, ricavate dalla pietra per trattare argomenti teorici riconosciuti in campo nazionale. Il monumento in questione non mi aveva mai convinto di interpretare e concretizzare un “oggetto primo”, anche se originalissimo e unico per queste zone. Fu allora che iniziai (un po’ di anni fa), gli studi delle “serie” (degli oggetti che lo compongono e il loro mostrarsi assemblati secondo ordini precisi). Ghirlande, panneggi, copricapo, lineamenti del volti, agganci delle ghirlande e sviluppo delle volute, pieghe, anatomia, l’alternanza degli spazi vuoti e dei fitti pieni, l’apertura del fogliame e la tipologia delle modanature classiche adottate. Una complessa ‘apparatura’ come un dispositivo funzionante alla perfezione. La pietra, dunque, ha assunto significato. La domanda però era un’altra; ma il miglior ordine di lettura, per quale livello di conoscenza potrà funzionare? La risposta è nel continuo aggiornamento e, ancora una volta, l’attenzione ai particolari per le soluzioni degli Erma fogliacei del tipo virile, posti in (batteria) serie, era l’obiettivo. Ero di fronte ad una delle più enigmatiche e misteriose (per alcuni ancora indifferente) facciate ‘monumento’ dell’antica Terra d’Otranto (Nardò) a cavallo della battaglia di Lepanto.
Derivati, infatti, dai profili mitologici e impreziositi da lumeggiate allegorie delle divinità pagane o naturali, ecco le assonanze compositive e formali della colta attività pittorica di Paolo Veronese. Alcuni particolari ‘toccano’ la grottesca strategia delle decorazioni di un maestro come Pellegrino Tibaldi (siamo in piena maniera, caratterizzata dalle sovraccariche preziosità allocate nei più svariati posti sempre colonnati e all’esterno, delle lussuose, popolose ed opulente scenografie). Ecco la fittezza della facciata neritina, è come se l’ “avorio bizantino” letto dal Manieri-Elia, lasciasse, il posto alla baldoria di ghirlande, agli ariosi girali e viticci popolati, ai lussuosi copricapo (degli erma) e alle folte, quasi soffocanti presenze della ‘compatta’ maniera, non più dipinta, ma ora, qui a Nardò, tradotta in pietra. Diversi particolari appaiono assonanti ai piccoli episodi di ‘recupero’ antiquario che Paolo Veronese espone nelle sue splendide opere (“Le allegorie dell’amore” 1570, la “Dialettica” 1582, la “Moderazione” 1582, Cena di Emmaus 1560) dando spazio a tutta quella cultura diffusa in grado di perfezionarsi e diffondersi in Europa. Sono evidenti, in queste opere del Veronese, tutta la serie di quegli oggetti ‘mobili’ che riproducono (intagli e sculture di scrittoi, mensole, braccioli per troni e ricche poltrone, ghirlande, contenitori cesellati, anfore auree, ecc… Magnifici allestimenti “teatrali” in movimento, dunque, misti a paesaggi di antichità architettoniche, apparate di telamoni, satiri, compreso il ghigno di fauni e figure fitomorfe che osservano divertiti le scene in atto) e traducono tutta una lingua ‘antiqua’ (filologia) che, molto probabilmente, potrebbe essere stata individuata e diventata ‘oggetto’ di attenzione per coloro che si stavano preparando a progettare o costruire la facciata neritina. L’effetto scenico dell’esterno del San Domenico di Nardò, inizia con il grande Erma angolare, inusuale, uomo-colonna, ‘colosso neritino’ o gigante “pietra d’angolo”. Il “colosso” sostiene il tempio e avverte che in quel luogo sta per succedere o succederà qualcosa (come si deduceva l’antico potere simbolico delle panoplie che simulano la sagoma umana, piantata in un campo da guerra) è dunque conferma la monumentale dichiarazione di ‘svolta’, per l’ordine di lettura di un testo; lì inizia l’opera di moralizzazione (comunicazione) scolpita sapientemente sulla facciata.
9 “FILOLOGIA ANTIQUARIA” COMPRESI LACCI E LACCIUOLI, NODI E NASTRI – Il sofisticato modo di comunicare le regole utilizzando la pietra per creare raffinate preziosità è una delle caratteristiche sulle quali puntare per valorizzare questo patrimonio. Confermano le mie ipotesi sulla necessità di mitigare qualunque degrado e consumo della materia lapidea; nessun dettaglio dovrebbe andare perso, ma necessariamente preservato, in quanto, dalla ricercatezza usata, si trae il riferimento dello stile delle opere d’arte neritine, facendole appartenere ad una teoria culturale diffusa in Italia e in Europa; siamo di fronte ad una “maniera” superiore, di interpretare la “parola di pietra”
Di certo, se confermate queste ipotesi (perché tali possono essere considerate), ne scaturirebbe un ambiente diverso, proposto con un approccio alternativo per comprendere meglio questa terra; i cantieri, dunque, i costruttori, ma anche i committenti erano molto più aggiornati e pronti a cavar concetti, forme e modelli, di quello che la storia locale ha evidenziato fin’ora. Parliamo a questo proposito, proprio della serie di dettagli che ho voluto studiare ed approfondire, non per trarne diretti rapporti, ma per consolidare, ritengo, quella visione di ‘cultura diffusa’ per cui accessibile e traducibile dagli artisti. Certamente esistente come ‘voce’ di forme usate, tenute a modello e dal significato ampiamente ri-conosciuto capace di dosare preziosità al lavoro dello scalpellino. Questo è l’elemento concettuale conseguente al confronto di opere; riconoscibilità, linguaggio, valore comunicativo, significato ‘aggiunto’ della pietra che così diventa altro.
Un risultato per certi versi interessante e allo stesso tempo valido come elemento utilizzato per la comunicazione, è quello che riguarda la scelta degli “erma” posti in “batteria”, sulla facciata di S. Domenico di Nardò. Come supporto all’elenco delle virtù (regole della fede) e dei vizi (effetti).
Utilizzare la scultura come strumento comunicativo, altamente persuasivo sempre pulsante e continuamente emittente, fu una straordinaria scelta. I messaggi composti e trasmessi, grazie alla pietra lavorata, ‘assumono’ il luogo, ‘assorbono’ l’ambiente, riconvertono la “cultura” figurativa, trasformandola in una reale nuova materia. Il materiale rinasce con una grana diversa da adesso, infatti, comincia a significare. La pittura a volte può anche diventare modello d’uso, un’annotazione utile, una variante, un’opzione possibile per cui la scultura, poi, traduce i codici narrati, svincolandoli dal piano e applicandoli nello spazio. Diventando opera tridimensionale e partecipando allo spazio, la struttura, che prima apparteneva all’immaginazione, sintetizza le sue sfumature ed elabora forme alternative; prende ‘corpo’, proietta quindi l’ombra partecipa all’ambiente. La pennellata, diventa superficie levigata di fondo, l’oggetto piano, muta e lo scalpello lo ricrea rinnovandolo in “paesaggio”. Pietra leccese o carparo assolvono il miglior compito di medium; percepibili secondo livelli diversi di conoscenza, tradotti da quella “filologia antiquaria” d’uso comune (divinità pagane, erma fogliacei, ghirlande, girali, telamoni con pose provocatorie, fauni ammiccanti, balaustre, nicchie conchigliate, clipei, piedi leonini di arredi o panoplie), come la più bella maniera di decorare, quindi, “apparare”, questi incredibili, unici, edifici civili o di culto.
Lacci e lacciuoli, nodi e fiocchi, nastri stringhe fanno dunque la differenza; ‘tengono’ ben strette ghirlande e medaglioni, catenelle e astragali. Troppi particolari agitano possibilità scultoree ben distinte e definite, osservate e di certo riconosciute. Sfarzose composizioni, riconducibili a direttive ottimamente dichiarate e ben leggibili che conosciamo appartenenti alla più chiara qualità espressiva italiana. Punto dell’eccellenza del Salento dove l’arte minore assurge a topos (luogo) dell’architettura o all’architettura stessa.
10 “ERMA” A SOSTENERE PREZIOSITA’ – Secondo elemento riconoscibile; la forma generale dell’erma fogliaceo ha attinenza con quelli che adornavano, nelle pitture di Paolo Veronese, l’arredo dei troni di imperatori. In particolare, i braccioli delle imponenti sedute celebrative, sono lavorate simulando il legno oppure l’oro. Un “cultura diffusa” che aggiorna la facciata del tempio neritino di ‘colte’ preziosità. Il riferimento concettuale è quello che conosciamo, riprende infatti quel senso mitologico o il simbolo pagano per eccellenza; l’ ERMA (virile o muliebre). Negli arredi viene posto a sostegno di concetti dell’azione che si realizza sulla loro “testa”. Il concetto pagano a sostegno dell’azione cristiana, accezione ri-simbolizzante come la “colonna inglobata”? O del “vincitore sul vinto” come le cariatidi dell’Eretteo? Comunque una ricchezza importante da valorizzare
Credo che occorra una migliore predisposizione e ancora una più matura consapevolezza nei riguardi della storia, completandone la vocazione multidisciplinare e così comprendendo maggiormente la fatica di coloro che ne narravano gli orientamenti, i collegamenti, i contatti, gli scambi, i rapporti artistici, il flusso di tesori e preziosità che viaggiavano per queste terre. Razze, culture, oggetti, facevano parte di un processo ‘edificante’ utile al dispositivo di miglioramento continuo, innescato a favore della crescita e dello sviluppo del Salento e di tutta la Terra d’Otranto. ‘Oggetti’ che, appena osservati e ‘passati’ da questi luoghi, ispiravano la creatività convincendo dell’esistenza di regole adattabili, stimolando il genio di bravi scalpellini, aprendo a varianti costruttive riportate e riprodotte con meticolosa e certosina passione. Straordinario modo di amplificare i messaggi, riproducendo regole e norme proprio come ‘storie sospese’ scritte su muri che, da quel momento, diventavano superfici parlanti (facciate) o torri emittenti (campanili e guglie).
11 FINESTRE A CORONAMENTO – A – Del Vignola “Regola delli cinque ordini d’architettura” (1562), schema finestra. B – Il particolare sulla facciata dell’Immacolata a Nardò (Le). C – Del Vignola ingresso chiesa di Sant’Antonio Abate a Rieti. D – Soluzione della parte superiore a coronamento della finestra (Vignola) . E – F Chiesa dell’Immacolata Nardò, LE (notare la presenza dei tre baccelli in D, E)
Quali vie percorrevano i preziosi documenti e i poderosi trattati circolanti? Chi li adoperava? Quali committenti illuminati selezionavano e ispiravano quei prodotti artistici e con quali ‘colti’ risultati? Quali ‘oggetti’ riportare e con quale potenza espressiva? (anche se ritengo fondamentale seguire 1 – i contesti delle prime ‘cattedre’ vescovili in ambienti non ancora latinizzati 2 – le strategie degli ordini mendicanti più importanti come celestini, domenicani, francescani ecc…, 3 – gli architetti delle fortezze che adoperavano i loro trattati sempre aggiornati). Di certo ancora oggi siamo distanti dalla realtà e la storia di questi luoghi, abbiamo prova che gli aggiornamenti ne proporranno di continuo delle variazioni. In effetti, la potente e corposa indagine archivistica e documentale, è solo la base sulla quale poter ragionare riflettere e dibattere (confrontando) allegando la sensibilità di chi riesce a “leggere” e proporre altre ipotesi. Ciò che la pietra comunica con un suo linguaggio, lo sappiamo, potrebbe essere stato ispirato da modelli di bronzo, legno, mosaico, argento, alabastro, avorio, oro o addirittura oggetti visti su qualche tela ‘in viaggio’ per queste terre o recepiti da disegni abbozzati su qualche blocco di appunti arrivati da chissà dove.
12 SOLUZIONI NON TANTO OVVIE – La soluzione della facciata di San Domenico a Nardò dovette incutere un certo timoroso fascino sulla popolazione salentina, visto che i riferimenti ad essa (troppo simili per non avere un riferimento comune) si moltiplicarono sia sui portali, sulle lunette dei portoni, sia sui reliquiari, sia sugli ostensori, sugli altari ecc…(molti i riferimenti nell’intaglio in legno di Fra Giuseppe da Soleto e dei suoi monumentali tabernacoli in Galatina o Avellino intorno alla seconda metà del ‘600)
Oggi ci accorgiamo che una rilettura di questo genere, diventa sempre più indispensabile, specialmente quando osserviamo e percorriamo il centro storico di una città. Come succede in diversi altri grandi centri, è evidente, per occhi consapevoli, un processo ‘compositivo’ utile a creare una distribuzione delle strade legate alla devozione o al rito e comunque di orientamento cultuale. Se pur con il disordine che la storia spesso crea, sovrapponendo strati di funzioni nel tempo, sono evidenti tracce di “resistenza” che ritengo interessanti e ancora da studiare. La documentazione non è mai abbastanza e, per la maggior parte delle volte, è pressoché inesistente, ma ciò non dovrebbe frenare la ricerca lo studio e la costruzione di ipotesi sulle quali ‘meditare’ per accertarne la validità.
Appare alquanto entusiasmante il risultato che vede la bellezza del paesaggio assumere una particolare stretta continuità con l’architettura del luogo. Ancora più chiara ritengo dovrebbe risultare la volontà storica di creare una continuità percettiva approfondendo la ricerca studiando le regole e le norme di questo intrigante dispositivo comunicativo messo in atto nel passato. Seguire la strada delle pietre parlanti; potrebbe essere un’idea.
Ma quella che ho definito come “La strada delle pietre parlanti” ha però bisogno di immagini di riferimento. Il loro potere era diffuso nel passato più di quanto si possa pensare ora con l’uso (abuso) degli strumenti tecnologici. La ricerca guarda ai nuovi sviluppi di studi sul potere delle immagini utilizzate come efficaci sistemi di comunicazione. Rimanendo in ambito devozionale, unico spazio di confronto e crescita collettiva, sarebbe necessaria una valorizzazione degli elementi che costituivano questi ambienti. Penso a ricerche inerenti i gonfaloni o gli attributi del vestiario confraternale, l’uso e i simboli di oggetti sacri o arredi della liturgia e i segni del rito, per comprendere appieno l’ambiente che ci circonda. Ma tutto questo (che conosciamo) andrebbe contemporaneamente evidenziata la cultura urbanistica legata alle figure votive; solo così infatti potremmo comprendere la fondamentale struttura memorativa che c’era dietro le definizioni di loci urbani, loci ficti, inventio, sensibilia, ruminatio (di quest’attività, risalente al VI secolo d.C. vedere Mary Carruthers), affectus, imago urbis e dei defensores civitatis, praticamente ciò che le argomentazioni dell’omiletica esprimevano, diventavano poi dipinti e opere o da questi, si trasformavano, a loro volta in altre parole. Tutta una strumentazione relativa all’ ars memorie, dunque, utile per la visualizzazione e la memorizzazione dei luoghi. Un metodo ben conosciuto dalla tradizione ‘classica’ che la Scolastica permette di far adoperare proprio per la visualizzazione mentale di viaggi e percorsi meditativi utili da ruminare sulle scene e sui racconti “conosciuti” della fede. Ci avevano pensato già le concrete metodiche duecentesche e qui ricordiamo tra gli altri l’Artes praedicandi che supporta la dottrina delle Summae sia di Alberto Magno e sia di Tommaso d’Aquino. Il ‘corposo’ testo però aveva bisogno di una ri-conversione in similitudini e visioni che la caleidoscopica realtà della città poteva regalare come spesso accade. Erano diffusissimi e conosciuti in Italia maggiori testi che indicavano le metodologie per esercitare i ‘viaggi’ della memoria (Giardino di Orazione del 1454 e stampato a Venezia nel 1494 attribuito al francescano Nicola da Osimo, l’ Arte dell’unione, la Scala del Paradiso, la Corona de la Gloriosa Vergene Madre)
13 FRANCESCO E IL SERAFINO – A sinistra Miniatura dal breviario di Ildegrda di Bingen (1098-1179) che può corrispondere agli schemi riferiti alle gerarchie angeliche che, molto probabilmente, hanno suggerito le decorazioni di rosoni e delle cornici. Angeli anche utilizzati per cicli memorativi (teoria del serafino con le virtù scritte sulle sei o più ali)
Nel Trecento opere come la diffusissima Summa de exemplis ac similitudinibus rerum, del domenicano Giovanni di Jacopo di San Giminiano univa gli exempla, creati da immagini scelte, quindi “efficaci”, utili alla composizione di concetti astratti.
Un’intensa attività comunicativa, importante per la sua dinamica ‘patetica’, meditativa e devozionale, capace ancora adesso di poter spiegare molte importanti questioni sulla possibilità di conoscere meglio i luoghi della memoria coincidenti con parti delle nostre città storiche. Come ha sostenuto la Bolzoni, questo era il tempo in cui i monaci e i predicatori toglievano lo spazio reale e percettivo, alle “maschere” che fino a quel momento avevano ‘governato’ e gestito, il tempo delle piazze. E, come fosse una battaglia da sempre combattuta contro l’estrema realtà dei costumi del carnevale, di contro corrispondevano, dopo le Ceneri, le armi affilatissime della predicazione. Si tessevano, allora, terminologie legate a doppio filo con le immagini, le ambientazioni, com’era stato da tempo, secondo quel metodo sempre funzionante che, a scandagliarne la potenza comunicativa, si rimane veramente ancora basiti. Da qui la scelta di utilizzare immagini con una selezionata evidente “efficacia”: alberi, scale, cerchi, cherubini, serafini con sei ali, altri metodi di struttura dell’ immaginazione, dei discorsi figurati e delle descrizioni, delle emozioni e delle sofferenze come della gioia dell’estasi e della gloria. Ma tutto trovava ragione, solo perché nella quaresima che avrebbe declinato le regole complesse di tutta sintassi del “pathos”. A questo proposito si svela il motivo di quella ‘strana’ apparizione durante le presunte stimmate di San Fancesco.
14 I TRE RITRATTI DI S. BERNARDINO DA SIENA – Per tre volte viene riportato il Santo senese nella Cattedrale di Nardò. Mai lontano dalla sua tavoletta “di riconoscimento” con indicato IHS. Voluto con volto giovanissimo sul pulpito dal vescovo Antonio Sanfelice, dalla scuola del Solimena (prima metà del XVIII), di cui il fratello Ferdinando, era allievo. Al centro il santo corrispondente all’iconografia classica anziano, dal volto spigoloso in un affresco risalente al XV secolo e di Leonardo Antonio Olivieri la tela del 1730
Un dispositivo magnifico che parlava alla mente; il Cherubino o ancor più l’”ardente” Serafino (Seraph), spiegava le ali e per ogni ala, le cinque piume, ognuna delle quali richiamava la traccia di cui si discuteva in un’omelia. Lo schema memorativo era chiaro l’immagine della memoria rielaborava la strategia che illustrava testi figurati capaci di visualizzare sensazioni, unendoli a un ordine disciplinato di moralizzazione delle coscienze che così esercitandosi, si evolvevano, indipendentemente.
Tecniche comunicative come strategie persuasive che basavano tutto sulla parola figurata e la sua potenza memorativa. Un episodio fra tanti rimane nella storia che ci appartiene. Chissà se San Bernadino da Siena, col suo incredibile ed esaltante bagaglio teatralmente comunicativo, completo di cultura biblica, teologica retorica e di una buona strumentazione giullaresco-popolare, (potente caratteristica della strategia francescana), avrà rotto il silenzio della cattedrale di Nardò, con le sue famose imitazioni di animali e con l’ausilio di smorfie e ‘gestacci’, come le evidenti e plateali parodie dei limiti patetici dell’arroganza e della supponenza, umana. Egli, infatti, è presente, secondo i documenti, nel 1433 a Nardò, accolto dal Vescovo Giovanni Barrella. Dall’originale pulpito in legno, egli sicuramente, come era solito fare, tuonò declamando la sua “pridica”, magari proprio quella del ‘corvo’, usando il “crai”, (nel dialetto neritino è come il domani latino), dei suoi burleschi giochi linguistici. Gli episodi che sappiamo appartenere alle sue “prediche volgari”, fra tutti il caso della denuncia dell’usuraio che deve restituire il mal tolto. Usa uno schema settenario per costruire l’ imago agens assumendo un viaggio per sette valli. In questo caso, una di esse è la valle quella del ‘crai’. Infatti così la descrive: “Questa è fredda, ventosa e addiacciata, ed è di coloro che dicono: ”Domane, domane, renderò Crai, crai!” Guardatevene…Quando puoi rendere, e sai a cui, non t’indugiare. Non li tenere, che ti faranno fuoco e fiamma addosso. Scarica la mala soma che non vi iscappi sotto. Non fare come di lo corbo “crai, crai” (Firenze 1424).
Oppure quando volendo far entrare altri frati al terzo ordine francescano dice: “O tiepidi, non state a dire: Cra, cra cra; Ché so’ di quelli che diranno: Oh, io entrerò un’altra volta; e starà così qualche sette anni, e poi verranno altri sette, e anco diciassette” (Siena 1427). E ancora quando suggerisce l’urgente confessione dopo un peccato mortale “Ramentovi che vi confessiate, e non vi indugiate , sempre al venerdì santo. Cavatevi el corbo di gola che dice: Cra, cra! Domane, domane” (Firenze 1425).
15 LE DIVERSE EPOCHE DELLE MUTAZIONI – Prima riga superiore 1901 facciata del castello degli Acquaviva d’Aragona di Nardò. Riga in basso, seconda metà del 1500. Trasformarsi in una creatura appartenente alla natura indicava un tremendo modo di oltrepassare il limite dell’ umana possibilità di convertirsi alla fede cristiana, lasciandosi colonizzare da un’altra natura per la quale occorre poi obbedire adattandosi ad un altro genere di regole
PATETICA DEI TELAMONI PIANGENTI
A parte il riferimento della decorazione della sotto-merlatura del castello degli Acquaviva d’Aragona, a cui viene addossata la facciata in pietra leccese nel 1901, che riprende il sotto marcapiano dei tre livelli, in alto del meraviglioso campanile (guglia) di Soleto, cioè gli archetti di origine stilistica medievale più le teste, che rappresentano le varie fasi della vita di un uomo, ho aggiunto un dettaglio non marginale per la storia della ‘scultura’ a Nardò la cui relazione concettuale è stata interpretata da me nella lettura della facciata di S. Domenico. Solo per chi “osserva per vedere”, infatti, ho mostrato come l’ultima coppia di Erma (sempre la parte destra, nella storia dei monumenti e delle facciate, è occupata dalla disperazione e dalla negatività degli episodi raccontati) sia composta da due figure, maschile e femminile scolpite secondo i canoni della “patetica” del dolore e del pianto prodotto dal pentimento. Le mani, non sostengono la balaustra, ma sono poste in un gesto di disperazione sulla testa tra i capelli. Leggo il messaggio come la sofferenza conseguente ad una vita vissuta secondo una pratica ‘istintuale’ delle emozioni, è la natura che dunque invade, con le sue regole colonizzando i loro corpi (che ho notato iniziare appunto dal bacino). D’altronde è il concetto principale della facciata del San Domenico di Nardò; lo abbiamo appurato nel caso delle due figure collocate nella parte destra, della facciata, quelle capovolte.
La prima con la ‘testa bocciolo’ superiore, apre all’inizio dell’invasione della natura (si scegli questo fenomeno, in quanto, facile da interpretare per ogni tipo di ceto sociale), in un corpo che sceglie di derogare alle norme e si lascia colonizzare. Il corpo della seconda, poi, colto in piena trasformazione, esprime l’avvenuto, cambiamento di stato (fede), percepibile dal volto superiore, ormai “germogliato” completato dalle irrefutabili corna d’ariete che ne definiscono la conclamata diabolica realtà. Per accrescere la situazione di sconvolgimento interiore, durante la metamorfosi, ecco il geniale particolare delle vertebre bell’esposte, della seconda figura capovolta.
16 A conferma dell’episodio riferito del S. Domenico, dalla facciata del castello, ecco altre simbologie come “la pigna” dalla diversa forma (a sinistra l’ordinata crescita, a differenza dell’altra che appare senza controllo) e le volute, sulle quali siedono le piccole figure; a sinistra sono rivestite di comode foglie secondo un ordine o un valore e una funzione data alla natura, mentre a destra della facciata perlopiù, essa “colonizza” le creature dedite a lasciarsi convincere da stati di coscienza istintuali
Una nota da riprendere riguarda l’importanza degli spazi del sacro che ritengo interessanti da individuare, sia nel caso di un tempio e sia nel caso di una città o in parti di essa. E’ il concetto per cui, ritengo, che alcuni grandi centri storici, dovrebbero strutturare assi e strategie di valorizzazione intorno a questo principio. Salvaguardando e amplificando l’importanza di quegli elementi che la storia ha lasciato, anzi, inserendoli in percorsi conoscitivi/formativi utili a conoscere secondo quali significati la città si è trasformata nel tempo. Gli spazi del sacro, in passato, erano dunque ‘vivibili’ e ‘visibili’, nel tempio come nella città. Ecco perché si predisponevano i limiti e le categorie per percepirli e rispettarli. Sacro è uno spazio “a parte”, concepito per essere diverso, vissuto secondo uno stato di coscienza alternativo. Si sacralizzavano quindi loci urbani, soste di riflessione o stazioni di passione, ma anche nella stessa chiesa, gli spazi andavano individuati (propongo due esempi che possono aiutare).
Ricordo volentieri, infatti, a questo proposito, la realtà storica ‘praticata’, distinguendola da quella presunta e la realtà dei documenti afferma che ancora nel 1560 a Nardò, come ci ricorda il Manieri-Elia, a tre anni dalla fine di del Concilio di Trento il vescovo Giovanni Bernardino Acquaviva d’ Aragona doveva insistere e raccomandarsi, pena multe in danaro, per canonici o laici, che in chiesa, non si danzasse, né si mangiasse, né si giocasse ad “anzare” a “taule” né a “carte”, né si doveva compiere alcun “atto dissonesto”, tantomeno riporre in qualche zona calce, legna, vino o grano, magari da vendere dopo il solito mercanteggiare. Non c’è da meravigliarsi, infatti se questo capitava a Nardò, lo stesso succedeva nei paesi bassi o in altri luoghi d’Europa. La chiesa, come ‘contenitore’, in effetti, fin dal Medioevo era un luogo che oscillava costantemente tra il collettivo e il familiare; un luogo ‘aperto’ dove però, il sacro vi si presentava, ma in determinate zone segnate. I predicatori s’indignavano, ma non riuscivano proprio ad evitarne l’uso improprio o mitigare l’accavallarsi di ‘altre’ funzioni; infatti, sovente vi si mangiava o vi si giocava e ci si incontrava, magari per vendere oggetti preziosi, parti di antichità classico-pagane per collezioni e si mercanteggiava come dalla cattedrale di Nardò, come d’altronde succedeva a Chartres o a Saint Corneille di Compiègne.
17 Nella facciata del Castello degli Acquaviva d’Aragona a Nardò, le 4 coppie di erma/telamoni comunicano degli stati d’animo evidenziandone virtù e vizi. In effetti nessuno dei telamoni (o erma) sostiene la balaustra, come la postura e la prassi simbolica vorrebbe. Nella prima coppia, a sinistra, dei busti in aggetto; “lui” stringe i pugni alzando le braccia arrabbiato, in un gesto di stizza, quasi furioso, lei invece indica la misura del tempo, l’evoluzione delle età, l’alternanza delle emozioni uguale a quello delle stagioni… della vita stessa. La donna palesa e rende facile l’idea che, sia l’estate o l’inverno, come la vita o la morte, vale sempre (per contrasto alla furia dell’uomo che con la simbologia della clava manifesta l’imminente, possibile perdita di controllo) la serenità insita nel rispetto del tempo, vivendo pienamente tutti i suoi attimi. Esattamente come la vita che genera e, a suo tempo, dona la sua sussistenza (latte materno indicato dal gesto), ma solo al momento giusto. La rabbia o la furia? E’ solo la ‘misura’ di quanto non abbiamo ancora compreso, della qualità del tempo e di come non sentiamo il mondo educarci attraversandoci naturalmente. Allora occorre mettersi al riparo, infondo, è sempre l’ ora di rinascere
Lo studio e la ricerca continua, supportata da un appassionato e serrato confronto tra opere scultoree o pittoriche “antiquarie”, conduce verso percorsi, davvero, interessanti per una maggiore conoscenza dei fenomeni artistici. Si scoprono allora quelle “strette” relazioni, utili a tradurre i difficili rapporti compositivi di soluzioni che, nelle opere d’arte, sembrerebbero inattese o inadeguate e che difficilmente verrebbero avvicinate se l’esperienza, non provasse a s/piegare per far meglio comprendere il sofisticato dispositivo messo in atto da un periodo particolare della storia di questa zona (Salento/Terra d’Otranto).
18 CAVALLUCCI SORRIDENTI DI LECCE – A sinistra in altro a colori, i cavallucci del mosaico di Otranto. In bianco e nero quelli a Lecce. Sfato con piacere la tendenza del voler vedere, nei sotto balconi o nelle balaustre, le tante mensole figurate di Lecce che, a sentire alcune voci, rappresentano cavalli, come ‘presunte’ insegne di abitazioni di nobili cavalieri. Nulla di più squalificante, visto che basta scorrere quanto scritto da tempo nella storia delle civiltà (Burckhardt) per avere un’idea di quello che succedeva nella preparazione di feste rinascimentali e barocche. Il sorriso di questi “bambocci” a forma di cavallo, ritengo, è da far risalire alle meravigliose feste e parate che riuscivano ad imprimere nella città un allestimento così festante che il loro ricordo portò a impadronirsi di elementi delle gaie parate ed a far scolpire quelle figure sui palazzi. I vestiti, le maschere o le sagome di probabili animali, poi, vennero sicuramente presi in prestito per inventare felici decorazioni. L’ apparatura delle città salentine, è rappresentato anche da questo entusiasta allestimento. Un incredibile sistema comunicativo che ‘parla’ di atmosfere’ difficili da comprendere per la loro magnificenza se non riportate nelle descrizioni dai grandi testi di storia. Succedeva nelle più grandi città che la realizzazione di scene, di carri, le allegorie, i trionfi, arricchivano gli spazi di gente ‘bardata’ e di animali ‘apparati’ a festa, per il piacere del divertimento del popolo in onore di visite di imperatori, regine nobili ecc.
Metodi di meditazione che corrispondono a numerosi modi di ricordare, non fini a se stessi ma orientati a “edificare” a possedere altri “territori”. L’arte della memoria era un metodo comunissimo e sperimentato. Un modo ‘altro’ di vedere oltre la realtà delle cose fisiche. L’immagine sensibile che imprime il testo nella mente, guidando verso l’invisibile, diventa un percorso che passa per le tappe necessarie; dal pentimento, alla purificazione dunque all’elevazione. Ogni ala viene divisa in 5 piume per cui la prima coppia di li corrisponde la confessione e la penitenza, la seconda alla purificazione del corpo e della mente, la terza all’amore verso il prossimo e verso Dio. Le sei ali del cherubino allora diventano una griglia (matrice) capace di sintetizzare dei testi o di generarne di altri a seconda dell’eloquenza e diventa funzionale alla predicazione (le piume delle ali possono variare). Se ogni ala corrisponde a sette piume (o altro numero a seconda dell’obiettivo che ci si prefiggeva) ecco preparato il percorso della Quaresima diviso in settimane/ali.
19 SEGNI POSTI A MONITO – La guglia Soleto Superiormente il particolare della ‘striscia’ di antichi simboli, (triskell o forme ‘roteanti’ a più bracci) poi cristianizzati, nell’opera de “l’ Agnello Mistico” di Jan van Eyck e di Hubert van Eyck, dipinta tra il 1426 e il 1432. In basso la decorazione ‘eclettica’ risalente alla fase di costruzione della facciata del Castello di Nardò, tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX secolo, su progetto dell’ingegnere Generoso De Maglie. Al centro la decorazione progettata da Francesco Colaci per la guglia di Soleto, terminata nel 1397 che riporta le stesse forme roteanti e triskell. Uno degli esempi di architettura gotica in Italia. Ricordo che strutture come le guglie, i campanili, le torri, venivano scelte e proposte alla stregua segni distintivi di precise identità architettoniche. Evidenti ‘insegne’ emittenti, per suggerire forme e simboli da distribuire sul territorio ‘cristiano’ o ancora da latinizzare come nel caso della guglia di Soleto piantato in terra, al tempo, prettamente grecizzante
E la didattica con i suoi solidi documenti non mancava di certo “Torre della sapienza” dell’ ultimo quarto del XIV secolo, dello stesso periodo è lo schema miniato de “I 12 articoli della fede, 12 profeti e 12 apostoli”, “L’albero delle virtù” a cui si contrapponeva “l’albero dei vizi”, “La ruota della trasformazione dei contrari”, “La ruota mistica” di Beato Angelico nell’ultimo quarto del XV secolo, invece è di Bosch “la ruota dei sette peccati”, “L’albero della vita” del XIV secolo, la figura ad “aquila” miniatura dal “liber figurarum” di Gioachino da Fiore del XIII secolo o dello stesso autore il “drago”, l’albero e la scala del 1617, il “cherubino” dell’ ultimo quarto del secolo XIV e ad Otranto il mosaico del 1163 – 65. Sta di fatto che alla fine del XII secolo l’immagine del cherubino/serafino è seconda solo a quella dell’albero (della vita/conoscenza).
20 STRUTTURE AL CONTORNO – Il complesso apparato allestito alle spalle della figura dominante, evidenzia un diverso grado di difficoltà e una risposta più o meno precisa nella restituzione ‘assonometrica’ (prospettica!?) delle diverse tipologie di baldacchini, nicchie, pergami o pulpiti. Più debole nel Sant’Antonio ritrovato nella chiesa di Sant’Antonio da Padova a Nardò (primo altare a sinistra dall’ingresso), ben definita ma non ancora consapevole quella del San Bernardino da Siena, sempre a Nardò, nella Cattedrale e un po’ più complessa, di certo matura, ma labile come graficizzazione, nella Madonna con il bambino di Otranto. Aggiungo volentieri alla nota della Falla Castelfranchi dell’86, la possibile presenza della stessa mano o più mani, infatti, si potrebbe trattare di un gruppo facente capo allo stesso cantiere. La composizione appare meno matura nel Sant’Antonio di Nardò (dove la figura, forse ripresa o ricolorata nel tempo, sembra galleggiare staccata dal fondo che non le appartiene). Uno sfumato stacca invece la figura dal fondo, evidente nella Madonna col bambino, più trasparente col San Bernardino da Siena. La sfumatura s’indebolisce e sparisce quasi totalmente, nel santo di Padova. La struttura a listelli disegnata come un paravento, evidenzia “riquadri” della stessa grandezza. Che gli autori dei Santi fossero diversi da quelli che preparavano le strutture del fondo? Possibile!
Un altro dato a conferma dell’aggiornata scelta della ‘linea’ artistica di Nardò, è rappresentato anche dalla sua forte e ricercata connotazione scultorea (la facciata di San Domenico, il Mausoleo dei Duchi Acquaviva d’Aragona e l’Annunciazione sulla facciata della chiesa del Camine), appartenente a quella tendenza europea che privilegia, in quel particolare periodo storico, (fine XVI) proprio la scultura, invece che il bassorilievo o alto rilievo. Anzi, qui a Nardò è più evidente la possibile fase di passaggio; l’opera d’arte è colta nell’atto del distacco dalla superficie muraria, scegliendo di significare maggiormente, agevola la forma tridimensionale che abbandona il piano per meglio parlare e farsi partecipe di un paesaggio.
21 NELLE PIEGHE DELLA STORIA – Interessante l’uso del panneggio che arriva a coprire, con un vorticoso ondeggiare simulando il ripiegarsi di pesanti tessuti, i calzari, almeno dove essi esistano. Infatti, le allegorie delle Virtù ai lati del mausoleo dei Duchi Acquaviva d’Aragona del 1545, nella chiesa di Sant’Antonio da Padova a Nardò, evidenziano che Prudenza e Temperanza ai lati estremi sono scalze, Giustizia Fortezza, al centro, hanno i calzari. Le pieghe della quattro Virtù “Cardine” della cristianità, hanno somiglianze con le pieghe del San Nicola, nell’affresco della Cattedrale di Nardò, degli inizi del XV secolo
Durante la scrittura di questo ‘lungo’ testo ho cercato di proporre un percorso per il quale le immagini avevano il compito di accompagnare il lettore indicando (spero), l’ambito del ragionamento col quale costruire (edificare) delle probabili ipotesi di confronto e di verifica. Proprio come se fosse un percorso memorativo, le cui imagines agentes, segnalano la pausa di riflessione, la sosta di meditazione. Ritengo, d’altronde che i diversi episodi descritti, rappresentino la prova che non occorre isolare i singoli casi, rendendoli eccezionali, in quanto, la perfezione, a volte, si ‘spiega’ indagando proprio all’interno del continuum (oggetti d’arte assonanti che si trovano nello stesso tempo in luoghi diversi e distanti) dinamico, dei termini della narrazione storica.
E’ dunque un ‘percorso’, quello che tentiamo lentamente di costruire, tracciato nella selva del quotidiano, con l’unico scopo di elevarci, migliorando il nostro vissuto, consapevoli dell’impegno che occorre nel comprenderlo, proprio nel momento in cui, con audacia, lo realizziamo.