«Non esiste delitto, inganno, trucco, imbroglio e vizio che non vivano della loro segretezza. Portate alla luce del giorno questi segreti, descriveteli, rendeteli ridicoli agli occhi di tutti e prima o poi la pubblica opinione li getterà via. La sola divulgazione di per sé non è forse sufficiente, ma è l’unico mezzo senza il quale falliscono tutti gli altri».
Joseph Pulitzer
Nella notte del 17 giugno 1972 cinque uomini si aggiravano furtivi nella sede del Comitato nazionale democratico a Washington, nel complesso del Watergate Hotel. Indossavano giacca e cravatta, guanti da chirurgo e avevano con sé un intero armamentario da spie (macchine fotografiche, dispositivi per intercettare telefonate, un walkie-talkie, tre spruzzatori di gas lacrimogeno). Inoltre, avevano le tasche ricolme di banconote da cento dollari con i numeri di serie consecutivi, per un totale di 2300 dollari.
La polizia li arrestò alle 2:30, grazie alla segnalazione della guardia di sicurezza, che per due volte aveva notato del nastro adesivo attaccato a una porta.
Il giorno dopo, il 18 giugno, uscì il primo articolo del Washington Post sul caso Watergate. Posizionato in prima pagina, il suo titolo recitava: “Cinque persone arrestate a Washington. Installavano microspie nel quartier generale dei democratici”. Pur non avanzando ipotesi sul motivo dell’effrazione né sui possibili mandanti, l’articolo elencava nomi e cognomi degli scassinatori e le loro dubbie attività. Ex agenti della Cia, dell’Fbi, soldati di ventura, addirittura due esuli cubani anticastristi.
In meno di ventiquattro ore, Bob Woodward e il suo collega Carl Bernstein, gli unici due giornalisti della redazione che mostrarono l’intenzione di lavorare sul caso, scoprirono che James McCord, il più anziano dei responsabili dell’effrazione, aveva ricevuto uno stipendio dal Comitato per la rielezione del Presidente repubblicano Richard Nixon. Sull’agenda di uno degli scassinatori, inoltre, era annotato il numero di un certo Howard Hunt con accanto due sigle: “W.H.” e “W.House”. Il riferimento alla Casa Bianca era sin troppo evidente.
Anche grazie all’aiuto di Gola Profonda, una fonte rimasta misteriosa fino a non molti anni fa e rivelatesi poi essere il vicedirettore dell’Fbi Mark Felt, Woodward e Bernstein portarono alla luce una «massiccia campagna di spionaggio e sabotaggio politico» condotta dalla Casa Bianca e dal Comitato di Nixon ai danni dei democratici.
Il Watergate, infatti, non era un evento isolato. Servendosi di una squadra di tirapiedi formata da più di cinquanta uomini, i cosiddetti “idraulici”, e attingendo a un fondo nero ammontante a più di 300mila dollari, il consigliere personale di Nixon, Dwight Chapin, e l’avvocato del Presidente, Herbert Kalmbach, avevano ordinato di installare cimici, pedinare persone, cancellare comizi dei democratici, sottrarre documenti, far trapelare false notizie ai media, infiltrare spie e agenti provocatori fra pacifisti e membri del comitato elettorale democratico.
Lo stesso Presidente Nixon era coinvolto: come emerse da un nastro, proveniente dall’impianto segreto di registrazione installato nei suoi uffici, egli aveva impartito al capo dello staff Haldeman l’ordine di insabbiare l’indagine dell’FBI sul Watergate servendosi della CIA.
Accusato di intralcio al corso della giustizia, abuso di potere e violazione dei diritti costituzionali dei cittadini, alle 21 di giovedì 8 agosto 1974, Nixon, per evitare l’impeachment, annunciò in televisione le sue dimissioni. Fu il primo Presidente nella storia a darle.
La domanda più controversa dello scandalo Watergate è, quindi, senz’altro questa: “È stata la stampa a deporre il Presidente degli Stati Uniti?”. Giornalisti e storici si dividono da quarant’anni sulla questione.
A un estremo troviamo la posizione dello storico conservatore Paul Johnson, che ha negativamente definito il Watergate «il primo putsch dei media nella storia»; all’altro l’opinione dello storico Stanley Kutler, il più importante studioso dello scandalo, il quale, pur riconoscendo che il Watergate «ha consumato e sconvolto la nazione, e ha messo alla prova il sistema costituzionale e politico come mai era avvenuto dalla Guerra Civile», minimizza l’impatto che su di esso hanno avuto i giornali. Gli articoli del duo Woodstein erano «opportunisti» ed «esagerati», quasi autocelebrativi. Nixon sarebbe stato comunque costretto a dimettersi perché era già in atto una combinazione tra un sistema giudiziario indipendente e un Congresso a maggioranza democratico.
Ma la gran parte degli americani non la pensa così: la vicenda si è trasformata in un mito nazionale, che ricalca quello di Davide e Golia e narra di «due giovani reporter del Washington Post che hanno fatto cadere il Presidente degli Stati Uniti», scrive il sociologo Michael Schudson. La lotta solitaria dei due giornalisti contro l’establishment del potere, un’elevazione a uno status eroico amplificata dalla pubblicazione nell’aprile del 1974 del loro libro, Tutti gli uomini del Presidente, un resoconto della loro inchiesta, e, soprattutto, dall’uscita del film omonimo due anni dopo, è stata così idealizzata e si è profondamente sedimentata nella cultura popolare.
Il Washington Post fu il giornale-guida nel Watergate. Nei primi cinque mesi e mezzo dall’effrazione, pubblicò 201 articoli sullo scandalo, più di uno al giorno, molti dei quali in prima pagina, mentre gli altri quattordici principali quotidiani ne misero assieme, fra tutti, appena 315, relegandoli di solito nelle pagine interne della cronaca. «Se questa storia è davvero una bomba, dove diavolo sono tutti gli altri?», si chiedeva sconcertata Katherine Graham, editrice del quotidiano.
All’inizio, infatti, per usare le parole della Casa Bianca, il Watergate sembrava soltanto un «furto con scasso di terz’ordine». Ma, poi, inevitabilmente, mano a mano che l’insabbiamento cominciava a profilarsi in tutta la sua monumentale stazza e le sue implicazioni a coinvolgere direttamente la presidenza, un inquietante e scomodo interrogativo si insinuò nella testa dei due reporter: una notizia vale la crisi di una nazione? Pare che questa domanda sia stata posta da Nixon in persona all’editrice del Washington Post Katharine Graham, che avrebbe risposto: «Nel momento in cui la stampa si ferma per domandarsi quali saranno le ripercussioni probabili di ogni notizia, non assolve più il suo compito».
Di certo, Woodward e Bernstein, quando cominciarono la loro inchiesta, non sapevano ancora fino a che punto li avrebbe portati. Se, però, non avessero tenuto in vita la storia grazie al loro fiuto, alla loro cocciutaggine e a un pizzico di fortuna, probabilmente i retroscena criminali di Washington sarebbero ancora seppelliti sotto terra.
Sia Sam Ervin, presidente della Commissione senatoriale sul Watergate, sia il giudice Sirica, infatti, confidarono a Woodward di aver letto i suoi articoli e di avervi preso ispirazione per scavare più a fondo nel muro di omertà eretto dagli “idraulici” e dai loro manovratori.
Ma quali ripercussioni ha avuto il Watergate sul giornalismo? Lo scandalo ha ridato slancio al giornalismo investigativo, conferendogli l’autorità, non solo morale, di “cane da guardia del potere”, e ha donato alla professione del reporter un fascino inaspettato. Il periodo stesso del Watergate (almeno a partire dalle seguitissime audizioni della Commissione senatoriale) fu un’età dell’oro per il giornalismo americano, in cui le notizie erano all’ordine del giorno e i quotidiani lottavano accanitamente per riservarsene l’esclusiva.
Il gergo del tempo (“insabbiare, “trapelare”) è divenuto parte del linguaggio politico statunitense e il suffisso –gate ha assunto il sinonimo di “scandalo”, tanto che ogni scandalo successivo sembra soltanto essere l’eco del Watergate (Irangate, Sexgate).
Tuttavia, molti lamentano l’eccessiva aggressività dei giornalisti a partire dal Watergate, come sostiene il professor Larry Sabato della University of Virginia: «Molti giornalisti vogliono ottenere la grossa notizia, sognano il Pulitzer e di essere interpretati da Robert Redford sul grande schermo». Si è insomma scatenato, secondo l’amara definizione di Bernstein, un «impulso arrivista» che ha in parte fatto assumere alle inchieste giornalistiche dei toni inquisitori. «Studiando il Watergate», ha scritto il professor David Greenberg della Rutgers University, i giornalisti «hanno troppo spesso emulato non [Woodward e Bernstein] ma gli ultimi arrivati che erano saltati sul Watergate come se fosse diventato uno spettacolo mediatico».
Benjamin Bradlee, direttore del Washington Post ai tempi dello scandalo, ha efficacemente condensato la disputa in una frase: «I nuovi cronisti tornavano dal più banale degli incendi sostenendo di aver trovato tracce di benzina nell’idrante, e che il capo dei pompieri era un antisemita».
Ad ogni modo, il Watergate, a quarant’anni di distanza, continua a rappresentare una lezione di giornalismo e una fonte di ispirazione per tutti coloro che sognano di intraprendere il mestiere di reporter.
Jacopo Di Miceli
@twitTagli
Bibliografia:
Woodward, Bob, e Bernstein, Carl, Tutti gli uomini del Presidente: l’affare Watergate, (1974) trad. it. di V. Ghinelli, Garzanti, Milano, 1976.
Woodward, Bob, e Bernstein, Carl, I giorni della fine, (1976), trad. it. di V. Ghinelli, Garzanti, Milano, 1977.
Woodward, Bob, La talpa del Watergate, (2005), trad. it. di C. Ferri e A. Plazzi, Sperling & Kupfer, Milano, 2005.
Feldstein, Mark, Watergate revisited, (Ajr, American Journalism Review).