Il welfare secondo Renzi

Creato il 19 novembre 2013 da Keynesblog @keynesblog

Su welfare e pensioni, Matteo Renzi ripropone la vulgata prevalente da alcuni anni che persegue il drastico ridimensionamento del sistema pubblico

di Angelo Marano da Sbilanciamoci.info

Giovedì scorso Matteo Renzi ha presentato a Servizio pubblico la sua ricetta su welfare e pensioni. Non mi è sembrato ci fosse nulla di nuovo, solo la riproposizione della vulgata prevalente in alcuni ambienti che da tempo perseguono il drastico ridimensionamento del sistema pensionistico pubblico, volutamente incoscienti delle riforme fatte, dei problemi aperti e delle esigenze del paese.
In estrema sintesi, la posizione espressa da Renzi è la seguente:

1) spendiamo troppo in pensioni e troppo poco nel resto del welfare, ergo dobbiamo ridurre la spesa pensionistica e spostare risorse sulle altre componenti del welfare, asili nido in primis;

2) il nuovo sistema pensionistico contributivo restituisce ai cittadini quello che ci hanno messo, mentre il vecchio sistema retributivo era troppo generoso, ergo, poiché quelli che sono già in pensione sono prevalentemente a regime retributivo, è legittimo ridurgli le pensioni; 

3) le pensioni elevate, così come quelle pagate a persone andate in pensione troppo giovani, sono uno scandalo e un costo che non possiamo permetterci, ergo è giustificata la riduzione sostanziale di tali importi, con la quale finanziare gli altri istituti del welfare;

4) le pensioni di reversibilità sono sorpassate e si prestano ad abusi, ergo il diritto va drasticamente ridefinito in senso restrittivo.

Tali proposizioni, come detto non nuove nel dibattito, risultano per buona parte infondate o velleitarie. Vediamole una ad una. In un successivo intervento esaminerò alcuni altri punti, cruciali nel dibattito pensionistico, sui quali invece Renzi non sembra esporsi.

1) È vero che spendiamo più degli altri paesi europei in pensioni: secondo i più recenti dati Eurostat, relativi al 2010, spendiamo il 16% del Pil, contro il 13,2% dell’Europa a 15 e il 13% dell’Europa a 27. Va tuttavia considerato che abbiamo una percentuale di ultrasessantacinquenni più elevata degli altri paesi, che le nostre pensioni sono assoggettate all’imposta sul reddito, a differenza di altri paesi dove sono praticamente esenti (vedi Germania), e che non si è considerata la spesa per sgravi fiscali alla previdenza privata, particolarmente elevata nei paesi anglosassoni.
Va poi, soprattutto, ricordato che abbiamo fatto delle riforme importantissime nei decenni passati, che hanno drasticamente ridotto sia gli andamenti futuri che quelli correnti della spesa. In termini nominali, la spesa pensionistica sta aumentando di anno in anno poco più dell’inflazione, e molto meno che negli altri paesi: fra il 2003 e il 2010, secondo i dati Eurostat, è aumentata in media del 3,8% l’anno in Italia, contro il 6,8% del Regno Unito, il 4,3% della Svezia, il 4,9% della Francia, l’8,1% della Spagna e il 5,5% della Danimarca (fa eccezione la Germania, con un aumento annuo dell’1,4%). In rapporto al Pil, già a legislazione vigente la spesa è destinata a contrarsi significativamente a partire dal 2014, come si può constatare dalla nota di aggiornamento al Documento di Economia e Finanza presentato dal governo lo scorso settembre. Come per tutti i rapporti al Pil, poi, il rapporto fra spesa pensionistica e Pil risente della contrazione del denominatore, ovvero della crisi economica. Se il Pil non si fosse contratto per la recessione, la spesa pensionistica sarebbe almeno di 1 punto di Pil inferiore. Se poi fossimo cresciuti negli ultimi 8 anni quanto la Germania, sarebbe di ulteriori 2 punti inferiore, scendendo al 13%, un dato in linea con la media e significativamente inferiore a quello ante crisi.
Dunque, a differenza di quanto si poteva scrivere una decina di anni fa, la nostra spesa pensionistica appare elevata soprattutto perché l’economia non cresce, non perché siamo troppo generosi. Verissimo invece che spendiamo pochissimo per tutte le altre prestazioni sociali, in particolare i servizi sociali, eccezione fatta per la sanità. Ma qui il refrain renziano del “dunque bisogna ridurre la spesa pensionistica e con i risparmi finanziare le altre componenti del sociale” è veramente un deja vu. Per esempio, questa era la posizione della commissione per la riforma del welfare presieduta da Paolo Onofri nel 1997, ma tale raccomandazione, pur genericamente fatta propria a livello governativo, non ebbe poi seguito: infatti, tutti gli ingentissimi risparmi successivamente conseguiti con le varie riforme pensionistiche furono assegnati o alla riduzione del deficit oppure ad esigenze considerate “più importanti”. Lo stesso è accaduto con i risparmi generati dall’aumento dell’età di pensionamento delle donne che, a norma del decreto legge n. 78/2009 (art. 22-ter), dovevano essere destinati a “politiche sociali e familiari”: sono invece finiti nel calderone, a finanziare tutt’altro. D’altra parte, il fatto stesso che Renzi condizioni il finanziamento dei servizi sociali al taglio delle pensioni è indice della scarsa urgenza con la quale percepisce il problema dell’arretratezza del sistema italiano di welfare; perché, se uno ritiene che la dispersione scolastica, o il reinserimento sociale dei detenuti, o il benessere dei minori o l’integrazione dei migranti siano temi importanti in sé, non si vede perché dovrebbe condizionare la risposta al taglio delle pensioni (qual è il legame?), invece di inserirli fra le priorità complessive del paese.

2) Con un entusiasmo da neofita, Renzi scopre che il nuovo sistema pensionistico contributivo introdotto nel 1995 si basa su un principio di equità attuariale, per cui dovrebbe tendere a erogare prestazioni in linea con i contributi versati. Il fatto, però, è che dietro questa apparenza, si nascondono dettagli di non poco conto, anche a prescindere dalla salvaguardia dei diritti acquisiti che, peraltro, in ambito pensionistico, dove i soggetti interessati sono avanti negli anni, richiede necessariamente una particolare attenzione. Innanzitutto, non è vero che un sistema retributivo, come quello adottato fino al 1995, sia necessariamente più generoso del sistema contributivo: a seconda dei parametri utilizzati, i due sistemi possono produrre risultati equivalenti, mentre, se il sistema retributivo tende a premiare le carriere dinamiche, il sistema contributivo tende a premiare le carriere piatte. Poi, Renzi sembra non accorgersi del fatto che non è vero che il contributivo restituisce pensioni corrispondenti ai contributi versati: è facile mostrare che, quando si considerano anche le prestazioni assistenziali, il sistema contributivo penalizza soprattutto i più poveri che, malgrado gli anni e decenni di contributi, rischiano di maturare pensioni di poco superiori all’assegno sociale, ovvero di maturare rendimenti addirittura negativi sui propri contributi, con un sostanziale incentivo ad entrare o a rimanere nell’economia sommersa (cfr. ad es. Marano, Mazzaferro e Morciano, Rivista degli economisti, 2012, 71).

3) Ancora, Renzi addita al pubblico ludibrio pensionati con elevati benefici e pensionati giovani, proponendo la riduzione dei loro trattamenti. Ora, innanzitutto va evidenziato che da un prelievo forzoso sulle pensioni elevate non possono derivare grandi risorse; il contributo di solidarietà inserito nel Ddl di stabilità 2014 (art. 12 comma 4), che prevede un contributo del 5% sulle pensioni superiori a 150mila euro annue, del 10% sulla parte eccedente i 200mila euro e del 15% sulla parte eccedente i 250mila euro, avrebbe effetti netti, secondo la relazione tecnica, risibili, pari a 12 milioni l’anno; anche ammettendo soluzioni più radicali, quali quelle ipotizzate su La Voce, si arriverebbe a un gettito di 800-900 milioni, quasi dimezzato, tuttavia, da quella che sembrerebbe la mancata considerazione da parte degli economisti de La Voce della perdita di gettito fiscale associata alla connessa riduzione degli imponibili Irpef. Quanto all’equità della misura, sembra prevalere nella posizione di Renzi un populismo mischiato a falso egualitarismo: coloro che hanno conseguito pensioni elevate – salvo rare e quelle sì scandalose eccezioni – sono in prevalenza persone che hanno ricevuto redditi molto elevati nel corso della loro vita lavorativa e contribuito conseguentemente, in accordo con regole che già prevedevano forme di solidarietà. Se si ritiene che sia ingiusto che esistano persone molto più ricche di altre, lo strumento a disposizione del pubblico è semplicemente la variazione delle aliquote fiscali: si proponga un aumento dell’aliquota sull’ultimo scaglione di reddito, senza discriminare fra ricchi pensionati e altri. Tanto più, è bene sottolinearlo, che un prelievo forzoso sui pensionati ricchi altro non costituisce che un aumento dell’imposizione, peraltro al di fuori della cornice complessiva data dall’imposizione sul reddito, dunque con effetti altamente disorganici. Quanto, infine, ai pensionati “giovani”, va detto che ormai da tempo in Italia le “baby-pensioni” sono un ricordo, di nuovo con qualche marginale ancorché scandalosa eccezione; i lavoratori sono andati in pensione alle età previste dalla normativa, gradualmente elevate, l’età media di pensionamento in Italia è in linea con la media europea, se non superiore, e quegli ex baby pensionati che ancora esistono, sono ormai avanti con gli anni e con benefici tipicamente non molto elevati; toccarli, oltre che un venir meno da parte dello stato alle regole, rischierebbe di toccare una categoria di pensionati ormai debole e incapace di recuperare reddito in altro modo.

4) Infine, con la messa in discussione delle pensioni di reversibilità, oltre a richiamare un populismo di stampo leghista che non trova fondamento nei numeri (Renzi fa il caso del vecchietto che si sposa la badante straniera per dargli la pensione di reversibilità), Renzi fa sua una posizione che si fonda sulla mera importazione nel dibattito italiano di analisi elaborate in contesti esteri. In paesi dove da tempo i tassi di occupazione sono elevatissimi sia per gli uomini che per le donne, la pensione di reversibilità può sicuramente essere ridiscussa. Ma attenti a farlo in Italia, dove ancora fino a pochi anni fa prevaleva un modello di famiglia monoreddito, con la cura dei figli e degli anziani interamente scaricata sulla donna, mentre i tassi di occupazione ed i redditi segnano ancora una drastica differenziazione di genere.

In conclusione, le posizioni esplicitate da Renzi sulle pensioni e sul welfare danno un senso di deja vu, di superato, tipico di chi si è dato in fretta e furia un’infarinatura della vulgata, con scarsa originalità di pensiero. Dio non voglia che nei prossimi anni ci tocchi ritornare a dibattiti già fatti tante volte.

In un prossimo intervento evidenzierò invece alcuni problemi che sarebbe bello venissero affrontati con un’ottica “nuova” ma cui non sembra Renzi offra, almeno finora, attenzione: a) l’età di pensionamento in Italia è troppo alta? b) è giusto che la legge obblighi i poveri a lavorare più dei ricchi? c) il livello delle prestazioni che si matureranno col sistema contributivo è troppo basso? d) le pensioni integrative non sono tassate troppo leggermente? e) un autonomo investimento sul welfare non sarebbe fattore di sviluppo e competitività per il sistema Italia?


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