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Ilva, autobiografia di un Paese

Creato il 27 maggio 2013 da Albertocapece

ilva_taranto_di_Ilaria_Longo_da_FBLa regione Puglia ha stanziato 600 mila euro per “ricondizionare” l’immagine di Taranto. Grottesco, ma vero: è l’ultima iniziativa in ordine di tempo per ricoprire di vacua cipria comunicativa la città dei veleni che da molti decenni è stata abbandonata a se stessa, al profitto senza limiti di una famiglia, alla complicità della politica, al cancro della tangentosi, alle ideologie liberiste in forma di malattia terminale e infine ad ambigue e bugiarde narrazioni nelle quali si stanno spiaggiando indecorosamente le elite residuali della cosiddetta “sinistra di governo”, come si può tristemente leggere qui.

Ma la vicenda dell’Ilva va molto oltre questo, riassume in tutte le sue forme la storia del Paese e delle sue classi dirigenti: errori strategici, mancanza di visione, vizi atavici e conseguenze drammatiche che hanno riguardato tante realtà italiane vengono esaltati e pantografati da questa storia dell’acciaio pugliese, nato per dare sviluppo al Sud negli anni del boom e finita in un dramma che potremmo definire da terzo mondo se non mancasse del tutto quel po’ di dignità con cui altrove c’è stato un riscatto dal ricatto morte in cambio di lavoro.

Dare sviluppo al Sud, ma sappiamo che troppo spesso alle buone intenzioni si è sostituito il voto di scambio, la pratica dei favori che passano sulla vita delle persone, un modello che coglieva nell’economia di stato non le sue possibilità strategiche, ma le sue retribuzioni politiche: una sorta di fantasna dell’Eni di Mattei con tutti i difetti, ma privo dei suoi vantaggi. Così nel 1993 la vecchia Italsider aveva accumulato 7 mila miliardi di debiti (un migliaio in meno di Fininvest, ma la politica ha saputo come coprire quel buco) pur producendo 12 milioni di tonnellate l’anno di acciaio. Ma lo stato aveva bisogno di soldi per la bella trovata di entrare nell’euro, ne avevano bisogno le classi dirigenti per perpetuare il modello impostosi con Craxi-Andreotti, per cui Prodi, liquidatore dell’Iri e sommo privatizzatore assieme allo svenditore di professione Mario Draghi, dismette l’Italsider, lascia i debiti in una sorta di bad company da liquidare e crea tuttavia a Taranto un gioiello per la produzione di laminati  che fattura in media 100 miliardi al mese. Sarebbe stato un bel cespite per lo stato anche a fronte di tutti i soldi pubblici che è poi costata la liquidazione delle attività in perdita del gruppo. Ma c’era la crisi: soldi pochi, maledetti e subito, così Taranto finisce all’asta e i  Riva se l’aggiudicano per 1.649 miliardi più altri 1500 di debiti finanziari. Robetta: la fabbrica di Taranto fatturava 9000 mila miliardi l’anno e praticamente la cifra fu recuperata in un batter d’occhio.

Lo dimostra il fatto che la società Riva Fire, finanziaria di controllo dell’Ilva laminati piani in pochi mesi passa dall’utile consolidato di 157 miliardi del 1994, ai 2.240 miliardi del 1995. L’utile netto sale da 112 a 1.842 miliardi di lire. Dire che i Riva, prima del’affare che ha penalizzato in maniera così pesante lo stato e dunque i cittadini, chiesero anche uno sconto di 800 miliardi di lire perché l’industria è troppo inquinante: era necessario investire per ammodernarla. Siamo alla beffa: non avendo ottenuto l’aiutino, si rifaranno sui lavoratori e sulla città di Taranto con la complicità evidente della politica nazionale e locale.

Gli utili non sono certo stati usati per impiantare tecnologie anti inquinamento, per rendere la città vivibile, per evitare l’effetto Bophal, ma sono fuggiti all’estero come dice l’inchiesta che ha portato al sequestro dei beni dei Riva per 8,1 miliardi. E adesso è tutto un inno per non nazionalizzare un complesso industriale reso letale a forza di disinvestimenti garantiti dalle complicità, ma creato con i soldi pubblici: per carità l’Europa non sarebbe d’accordo. Quella stessa Europa del nulla che tuttavia tace sulle condizioni della città. E anche tutto un inno al fatto che lo stabilimento non deve chiudere perché è strategico. Già, ma se era strategico perché è stato privatizzato esponendosi al rischio che fosse poco a poco portato via? Perché così dice il delirante pensiero unico che in questo caso è ancor più rafforzato dal fatto che pochi stati avrebbero permesso gli stessi scempi che a Taranto: scempi che tuttavia si sono tradotti in grandi profitti sulla pelle degli altri.

Tutto questo in varia misura è applicabile agli ultimi trent’anni di storia italiana e trova conferma anche nella Fiat che dopo aver agito in Italia come un casalingo terzo mondo, dopo aver ottenuto da un ceto politico subalterno e certo non disinteressato che non vi fosse alcuna concorrenza in Italia, ora se ne va in Usa, lasciandoci in braghe di tela. Tutto questo accompagnato dalle omelie dei tanti corrotti e/o imbecilli che hanno fatto ponti d’oro a Marchionne. Ma è anche applicabile alle migliaia di aziende che hanno cessato da decenni di investire, contando sulle rendite di posizione e sulla promessa di caduta dei salari, precarietà, distruzione di diritti. Sul degrado dell’ambiente sociale.

Però anche i Riva hanno i loro aedi: «Chiesi ad Emilio Riva, nel mio primo incontro con lui, se fosse credente, perché al centro della nostra conversazione ci sarebbe stato il diritto alla vita. Credo che dalla durezza di quei primi incontri sia nata la stima reciproca che c’è oggi. La stessa che mi ha fatto scendere in campo contro il referendum per la chiusura del ‘polmone produttivo’ della Puglia». Non è il papa, ma Vendola. Amen


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