L’Ilva di Taranto: le conseguenze del declino
Se ne parla poco. Molti giornali, telegiornali e mezzi di comunicazione di ogni genere hanno lasciato in secondo piano ciò che avviene all’Ilva di Taranto e tanto meno si preoccupano di delineare con cura di particolari gli effetti drammatici che la vicenda può avere sul Paese, fatta eccezione per alcune testate specializzate. L’Ilva è una delle acciaierie più importanti d’Europa, produce (ormai, produceva) più del 40% del fabbisogno nazionale di acciaio, alimentando alcuni dei settori manifatturieri più importanti del Paese. Le conseguenze negative del declino di Ilva sull’economia italiana si sono già evidenziate negli ultimi mesi: aumento dei costi per molte aziende (causa importazione di acciaio dall’estero) e poca tempestività negli approvvigionamenti. Da un punto di vista occupazionale, più di 12.000 posti di lavoro in ballo nell’impresa, 3.000 nel solo indotto tarantino.
I provvedimenti del Governo sull’Ilva
Il Governo italiano, a partire dal 2012, ha agito sul fronte Ilva, prima sospendendo le prerogative di proprietà della famiglia Riva e poi, attraverso l’ultimo decreto, dichiarando il definitivo spossessamento della proprietà, dovuto principalmente alla situazione di insolvenza in cui versa lo stabilimento. Un primo punto critico sorge già qui: chi risarcisce i piccoli azionisti di Ilva, nemmeno coinvolti nell’indagine, della proprietà loro sottratta? Siamo sicuri che l’Unione Europea non dirà la sua su una manovra così opaca?
In primo luogo, bisogna notare come l’attuale situazione di insolvenza si debba principalmente alla gestione dello stabilimento negli ultimi anni da parte dei commissari pubblici nominati dai Governi, sicuramente non aiutati dai provvedimenti della magistratura che, decretando prima la temporanea sospensione e poi il ridimensionamento dell’attività produttiva dello stabilimento, hanno reso insostenibile per Ilva la competizione a cui il mercato la sottopone: l’acciaio è un settore dai costi fissi enormi, difficili da coprire in assenza di un’attività produttiva a pieno regime.
Un po’ di fatti. In due anni e mezzo di gestione commissariata, 3 miliardi di capitale netto sono stati bruciati. Molteplici interventi della magistratura, che hanno evidentemente danneggiato l’attività produttiva dello stabilimento, sono stati smentiti in sede di impugnazione (maggio 2013, sequestro di 8,1 miliardi nei confronti del gruppo Riva), o non hanno avuto sbocchi processuali. Il processo di riqualificazione ambientale ha fatto pochi passi in avanti, poiché mancano le risorse economiche previste: l’accesso a molti dei capitali sequestrati al gruppo Riva è per ora congelato.
Così, buona parte dei costi per la sopravvivenza di Ilva adesso sono a carico dei creditori. Si stima che l’ammontare di tali debiti sia di circa 600 milioni di euro, da distribuire fra moltissime imprese fornitrici italiane e non. Si è paventata l’idea di suddividere i creditori fra “strategici” e “non strategici”, garantendo la priorità di pagamento a quelli considerati strategici, come se fra le aziende creditrici ce ne fossero di serie A e di serie B. In aggiunta, è importante far presente che molte delle aziende creditrici di Ilva hanno continuato a produrre proprio in virtù del commissariamento governativo, percepito come garanzia di pagamento dei debiti. Ci sono precedenti virtuosi che potrebbero suggerire una soluzione al problema dei creditori. Un esempio è il caso dell’Efim: ai creditori fu concesso di non pagare imposte per 2 anni, in modo da risarcirli per le perdite subite.
Il costo della riqualificazione ambientale dello stabilimento è di 1,5 miliardi, a cui si aggiunge 1 miliardo, utile a tornare al pieno utilizzo dell’attività produttiva. Ironicamente, la somma totale di 2,5 miliardi corrisponde al capitale netto bruciato in due anni di gestione commissariata.
Ilva: chi pagherà per tutto questo?
L’Italia ha prodotto molti sforzi per portare a casa riforme importanti per restituire competitività economica al Paese, attrarre investimenti italiani ed esteri ed agganciare la ripresa, ma poi l’esempio di politica industriale che viene dato al mondo è il caso Ilva. Ci si potrebbe interrogare se sia più grave quest’immagine offerta all’esterno oppure il danno economico effettivo causato dall’intera vicenda. Un cortocircuito giuridico-istituzionale, quello di Ilva, che dimostra tutti i limiti di un sistema Paese che ha nell’inefficienza delle istituzioni il suo principale fardello. Senza dimenticare l’assoluta serenità con cui si ignora il problema nel dibattito pubblico, segno di una mancanza di sensibilità diffusa nei confronti di queste tematiche e la conseguente noncuranza della maggior parte di giornali e mezzi di comunicazione. Tutti vogliono investimenti, posti di lavoro e politica industriale seria, ma forse, per ottenere tutto questo, serve più senso di responsabilità tra le forze sociali e più lungimiranza tra le istituzioni.
In conclusione, una domanda: chi pagherà per tutto questo? Ci sono numerosi agenti che hanno avuto responsabilità nel determinare l’attuale situazione di Ilva: i Riva, il Governo, la magistratura. Una volta che queste responsabilità saranno accertate, qualcuno pagherà? Infine, sarà portato a compimento il risanamento di Ilva? Tornerà lo stabilimento alla piena capacità produttiva?
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