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Imbroglioni!

Creato il 03 giugno 2011 da Stukhtra

Fra frodi e plagi, la scientific misconduct

di Marco Cagnotti

Quest’intervista è disponibile in versione
ridotta anche nel podcast
di Quarantadue

Imbroglioni!

Stefano Ossicini.

Spesso gli scienziati amano descrivere la propria categoria professionale come composta non solo da menti superiori alla media per le qualità intellettuali, ma anche per quelle morali. Perché la scienza richiede onestà intellettuale e di conseguenza (piace pensare) anche onestà tout court. Non sono angeli, ma poco ci manca. Certo non commettono le porcherie di politici ed economisti. Sono menti pure e disinteressate, gli scienziati. Ma sai che c’è? Sono balle.

Gli scienziati sono umani. Moralmente non sono né peggiori né migliori di tutti gli altri. Sicché in grande maggioranza sono persone per bene. Ma non sono rare nelle loro file gli imbroglioni e gli scopiazzatori. Anzi, il cattivo comportamento scientifico è diventato un campo di indagine… scientifica. Ce lo siamo fatto raccontare da Stefano Ossicini, che insegna Fisica Sperimentale presso l’Università di Modena e Reggio Emilia, dove si occupa di nanostrutture, ma che ha pure sviluppato un interesse per le frodi scientifiche. Argomento sul quale sta per pubblicare un libro.

Professor Ossicini, lei si occupa di nanostrutture. Come nasce allora quest’interesse per le frodi scientifiche?

Da una vicenda risalente a circa dieci anni fa. Il mondo delle nanoscienze è stato sconvolto, all’inizio di questo secolo, da un caso di frode scientifica che ha suscitato molto clamore non solo sulle riviste di fisica, ma anche sui quotidiani e perfino in televisione. E’ stata forse la più grande frode della storia della fisica moderna. Essa ha coinvolto un ricercatore tedesco che lavorava negli Stati Uniti, presso i Bell Laboratories, un centro di ricerca che è sempre stato una vera fucina di Nobel: ben sette negli ultimi 80 anni. Io ho seguito la vicenda come spettatore e da lì è nato il mio interesse. E, siccome ero anche direttore di una scuola di dottorato, ho pensato che fosse una buona idea creare un corso sulla buona e sulla cattiva condotta scientifica, per insegnare agli studenti come comportarsi correttamente per non cadere in queste tentazioni. Corso che tengo ormai da parecchi anni. Adesso ho anche in cantiere un libro sull’argomento: L’universo è fatto di storie non solo di atomi, in pubblicazione presso Neri Pozza Editore. Occupandomene, mi è parso di trovare differenze significative nel numero e nella tipologia delle frodi durante l’ultimo secolo.

Parliamo allora dell’episodio dal quale è partito il suo interesse. Era il caso di Hendrik Schön, vero?

Sì. Un caso davvero interessante. Jan Hendrik Schön era un ricercatore tedesco trasferitosi, appena raggiunto il dottorato, dall’Università di Costanza, in Germania, ai Bell Labs. Lavorava in un gruppo molto famoso il cui capo era Bertram Batlogg, uno svizzero che ora è al Politecnico Federale di Zurigo e che all’epoca era molto noto per i suoi studi sulla superconduttività ad alta temperatura. Batlogg coordinava anche un gruppo di ricercatori impegnati sui semiconduttori organici: una classe del tutto nuova, che permette maggiore flessibilità e ulteriore miniaturizzazione. Nel 1998 Batlogg assunse anche Schön, che in poco tempo riuscì a ottenere risultati importanti. In sostanza, Schön con i suoi esperimenti stava ricapitolando la storia della fisica dei semiconduttori. E aveva una produttività scientifica enorme: quasi 50 pubblicazioni solo nel 2001.

Una vera “macchina da pubblicazioni”.

Non solo: era notevole anche il livello di quelle pubblicazioni. Tale era la fama acquisita, che nel 2002 a Schön fu proposto di assumere la direzione di uno dei Max Planck Institut, a Stoccarda. Di solito questi centri di ricerca vengono creati apposta intorno a una figura importante, che ne diventa il primo direttore, per approfondire una tematica scientifica nuova. E Schön avrebbe dovuto prendere servizio nell’ottobre del 2002. Ma aveva deciso di rimanere in America ancora per qualche mese.

Mi sa che alla fine sarebbe arrivato anche il Nobel…

In effetti qualcuno dice che, quando si apriranno gli archivi del Nobel, ci si troverà anche la proposta di attribuirlo a Batlogg e Schön. Di sicuro la risonanza di quei risultati è stata enorme. In un meeting del 2002 Schön ritirò un premio come giovane ricercatore dell’anno, presentando un seminario di fronte all’intera audience della Materials Research Society. Al termine ci fu un applauso scrosciante: Schön aveva presentato i propri risultati in maniera calma, intelligente e attenta alla fisica.

E poi? Dalle stelle alle stalle?

Per ricostruire la caduta di Schön c’è un bel libro di Eugenie Samuel Reich, Plastic Fantastic, che racconta come all’inizio ci fossero dei pettegolezzi nella comunità scientifica, da un lato sulla velocità di pubblicazione da parte di Schön e dall’altro sulla non ripetibilità dei suoi risultati da parte di altri gruppi di fisici che si erano messi a lavorare sulla stessa linea di ricerca. La comunità cominciava a chiedersi se davvero il suo successo fosse dovuto alle sue enormi capacità. Comunque all’inizio non si pensava a una vera e propria frode. Ma un giorno una ricercatrice americana, Lydia Sohn, a quell’epoca all’Università di Princeton, trovò sulla propria segreteria telefonica un messaggio anonimo in cui la si invitava a leggere in maniera approfondita gli articoli pubblicati da Schön nell’ultimo anno. Così lei si accorse che in un paio di grafici corrente-tensione la componente relativa al rumore di fondo, che peraltro non è importante per il risultato, era del tutto identica. E questo non è possibile, perché il rumore di fondo deve essere casuale. Sohn dunque contattò un collega molto noto, Paul McEuen, della Cornell University, e gli passò queste prime informazioni. Insieme rilessero l’intera produzione di Schön degli ultimi anni. Da un punto di vista sociologico, è interessante osservare come Sohn e McEuen si scambiassero email firmandosi Mulder e Scully. D’altronde una frode così ampia in un settore così di moda sembrava davvero un fatto extraterrestre o paranormale. Insieme scoprirono una terza figura con lo stesso rumore di fondo. Ora, se due figure identiche possono essere un caso, tre figure rappresentano una pistola fumante. Da lì partì la valanga che avrebbe infine travolto Schön, Batlogg e i Bell Labs.

Di fronte a quelle obiezioni, Schön come rispose?

Si giustificò dicendo che aveva fatto solo confusione fra diverse figure. Ma ormai tutto il mondo scientifico parlava di quel caso e i Bell Labs furono costretti a mettere in piedi una commissione d’inchiesta che, lavorando molto velocemente, nel giro di quattro mesi dimostrò in maniera accurata che c’era stata una vera e propria frode: molti dei risultati mostrati da Schön erano stati costruiti ad hoc con il computer e non erano affatto i risultati degli esperimenti.

E lui come reagì?

Ammise le proprie responsabilità, ma affermò che i risultati c’erano davvero, che lui li aveva visti. E che li aveva solo “abbelliti”, per renderli maggiormente intellegibili, perché l’esperimento è sempre un po’ “sporco”. Continuò sempre a dire che aveva commesso solo quell’errore stupido di “abbellire” i propri risultati.

E adesso che fine ha fatto?

E’ scomparso.

Scomparso?

Dopo la pubblicazione del report finale venne licenziato dai Bell Labs e gli fu tolta la carta verde statunitense. Tornò in Germania e da allora non si hanno più notizie di lui. So che gli fu tolto anche il dottorato di ricerca e che lui fece ricorso. In effetti una commissione d’inchiesta dell’Università di Costanza aveva indagato anche sulla sua tesi di dottorato, trovando dati trattati in maniera non corretta ma non una vera e propria frode. Il dottorato gli è stato allora tolto per comportamenti non consoni al rango di un dottore di ricerca. Questa motivazione per il ritiro del dottorato era già stata usata dai nazisti contro oppositori politici e ebrei e, secondo la mia opinione, non è il modo di procedere scientificamente corretto riguardo alla revoca di un dottorato.

Lei personalmente ha mai avuto a che fare direttamente e personalmente con un caso di frode scientifica?

L’unico episodio che mi è capitato è il caso di un articolo per il quale ero referee, articolo nel quale trovai una figura chiaramente presa da un altro articolo ma senza citarlo. Scrissi all’editore che l’articolo sottoposto al mio giudizio era viziato o da una disattenzione o da un plagio e che quindi non poteva essere pubblicato. E così andò.

Ma com’è possibile una frode scientifica?

In che senso?

Nel senso che la scienza ha una natura autocorrettiva. Perciò prima o poi la verità viene sempre fuori: i risultati inventati non vengono riprodotti da nessun altro. Perché allora uno scienziato dovrebbe commettere una frode? Come pensa di poterla fare franca?

Secondo me c’è un aspetto di cui spesso non si tiene conto: in genere, anche su temi di grande importanza, intorno ai quali ci sono grande attenzione e grandi attese, nella comunità scientifica c’è la naturale propensione a credere all’annuncio di nuovi risultati, una sorta di fiducia preventiva nel proprio mondo. Spesso poi lo scienziato che imbroglia è convinto che la risposta che sta fornendo sia quella corretta, anche se sa di non poterlo ancora dimostrare perché non ne ha la voglia o la capacità.

Sicché, in un certo senso, c’è una sorta di “buona fede”. Ma quale meccanismo spinge a mentire?

Beh, è chiaro che, se io mento quando affermo di aver dimostrato un certo effetto ma sono convinto che l’effetto esiste, e poi arriva un secondo gruppo di scienziati e lo dimostra davvero… la paternità della scoperta rimane pur sempre a me.

Oltre a Schön, c’è qualche altro caso famoso?

Sì, certo. Per esempio Emil Rupp: un fisico tedesco che fra il 1926 e il 1934 menò per il naso l’intera comunità scientifica. Quelli furono gli anni fondamentali per la nascita della meccanica quantistica, e Rupp godé di una grande attenzione. Se lei si va a leggere il seminario tenuto da de Broglie a Stoccolma in occasione della consegna del Nobel, trova che lui cita come conferme della sua ipotesi della natura ondulatoria dell’elettrone i risultati sperimentali di Davisson e Germer sulla diffrazione elettronica nei cristalli, quelli di Thomson sulla diffrazione elettronica in film sottili, e quelli di Rupp del 1928, secondo de Broglie la prova più bella della sua teoria. Poi però in seguito il Nobel sperimentale per la diffrazione elettronica viene attribuito ai soli Davisson e Thomson… ma non a Rupp. Perché?

Già, perché?

Perché si scopre che Rupp aveva barato.

Aveva barato?

Rupp si era occupato di molti argomenti, ma anzitutto bisogna fare un passo indietro e ricordare che era diventato famoso per l’esperimento di Einstein-Rupp. In quest’esperimento c’era uno specchio rotante, e si andava a indagare la natura della luce studiando l’interferenza di due raggi luminosi che percorrevano cammini differenti. Rupp collaborò con Einstein, che aveva concepito l’esperimento, e lo realizzò. Vennero pubblicati due lavori distinti: uno teorico firmato da Einstein e uno sperimentale firmato da Rupp. Così Rupp diventò famoso. All’inizio lavorava nel gruppo di Lenard a Heidelberg, poi si trasferì a Göttingen e infine arrivò a Berlino, in un centro sperimentale molto importante creato dalla AEG e diretto da von Laue, un centro che era un corrispettivo germanico dei Bell Labs statunitensi: uno dei primi esempi di relazione fra industria e accademia. Rupp lavorò sulla polarizzazione dell’elettrone e sulla natura ondulatoria del protone, che sostenne di aver dimostrato per primo.

Anche lui… come passò dalle stelle alle stalle?

Sugli esperimenti di Rupp si cominciò a mormorare fra il 1932 e il 1934. Anche nel suo caso suscitava sospetti la sua grande produttività scientifica. Passava da un campo di punta all’altro e, quando emergevano delle polemiche, cambiava settore. Poi qualcuno lo incastrò.

Chi?

Due giovani ricercatori dell’istituto di Berlino penetrarono nottetempo nel suo laboratorio e scoprirono che gran parte degli strumenti risultava inutilizzata. Il direttore, Ramsauer, chiese a Rupp di replicare gli esperimenti sulla diffrazione di particelle pesanti e sulla polarizzazione elettronica. Rupp rispose che non poteva perché gli si era rotto il tubo a vuoto. Così l’ultima volta in cui il nome di Rupp compare su una rivista di fisica è nel referto di uno psichiatra, secondo il quale i risultati di Rupp erano frutto di uno stato psicotico, uno stato di sogno. Tuttavia secondo lo psichiatra poteva ancora guarire. Però Rupp venne immediatamente licenziato, Ramsauer scrisse una lettera a 20 grandi scienziati in cui descriveva il suo caso e da quel momento su Emil Rupp cadde il totale silenzio.

E anche lui scomparve?

No. Si trasferì nel Meclemburgo e dopo la guerra si ritrovò nella DDR. Fu assunto come ricercatore in un istituto che studiava le tecniche fotografiche, un settore nel quale lavorò fino alla pensione. Riuscì anche a pubblicare cinque articoli sull’argomento. Anche i suoi lavori precedenti si caratterizzavano propria per una grande accuratezza nella tecnica e nella manipolazione fotografica. D’altronde da studi successivi è emerso che la stragrande maggioranza dei suoi risultati era stata inventata e costruita di sana pianta.

Anche l’esperimento dello specchio rotante?

Quello poi è stato la prova definitiva che la sua carriera era stata fondata su risultati falsi. A un certo punto Einstein si era accorto che lo specchio utilizzato nell’esperimento doveva essere leggermente ruotato di frazioni di grado in senso antiorario. Rupp affermò di aver svolto l’esperimento esattamente nelle condizioni indicate da Einstein. A Monaco di Baviera c’era però uno scienziato famoso, Walther Gerlach, sospettoso, che non si fidava molto di Rupp. A partire dal 1929, sotto sua indicazione, un gruppo di dottorandi di Monaco cercò di replicare l’esperimento di Rupp, ma non ci riuscì. Gerlach approfondì la questione e scoprì che l’idea di Einstein conteneva un errore: nella sua proposta, Einstein aveva sbagliato il verso di rotazione dello specchio. In quelle condizioni l’esperimento non avrebbe mai potuto funzionare… ma nel caso di Rupp aveva funzionato! Alla fine proprio il gruppo di Monaco dimostrò che sì, l’esperimento di Einstein era possibile, che l’angolo di rotazione era giusto… ma che bisognava invertire il verso della rotazione. E l’esperimento infatti venne svolto. Poi c’è il caso di un altro esperimento, quello sulla polarizzazione dell’elettrone, con il polarimetro di Mott. Fra il 1928 e il 1941 l’unico che aveva ottenuto risultati positivi era stato Rupp. Nella comunità scientifica ci si chiedeva se davvero i suoi risultati erano corretti oppure se la teoria di Mott fosse sbagliata. Poi nel 1941 un ricercatore americano che ci lavorava dagli Anni Venti capì che il problema era legato alla possibilità di eliminare nell’esperimento degli effetti spuri. Mott aveva ragione. E anche in quel caso Rupp aveva avuto naso, gli esperimenti non li aveva svolti ma i risultati presentati andavano nel verso giusto.

Quindi, in sostanza, chi froda crede sinceramente di essere dalla parte della ragione.

Spesso sì, ma c’è una frase famosa attribuita a Marie Curie: “C’è un’enorme differenza fra ’sapere’ e ’saper fare’”. La mia impressione è che gli “imbroglioni” siano convinti di sapere qual è il risultato, ma non siano capaci di provarlo con l’esperimento, e però… si buttino lo stesso.

Si può quantificare la frode scientifica? C’è un aumento negli ultimi anni?

Provi a fare una ricerca sulle riviste più importanti con le parole chiave “fraud” o “misconduct”: vedrà che quasi ogni numero riporta qualche articolo. Perciò l’attenzione sul tema c’è senza dubbio. Negli ultimi anni sono nati comitati etici all’interno delle istituzioni scientifiche, con il compito di analizzare i casi sospetti. Negli Stati Uniti per le scienze mediche c’è l’Office of Research Integrity, che approfondisce i casi segnalati. E il numero di casi indagati e poi scoperti aumenta nel tempo.

Ci sono discipline più affette di altre dal problema delle frodi?

Le stime variano molto. La differenza dipende dal metodo impiegato per studiare questi fenomeni. Per esempio, a volte si sono usati questionari anonimi per chiedere agli scienziati se hanno una conoscenza diretta di casi di cattivo comportamento scientifico perpetrati nel proprio laboratorio o in laboratori vicini. Per la fisica e la chimica le risposte affermative andavano dall’1 al 4 per cento. Mentre nelle scienze biomediche e farmaceutiche si arrivava fino all’80 per cento. Significa che 4 ricercatori su 5 avevano avuto sentore di un caso di frode.

E’ tantissimo!

Ovviamente i casi sono più numerosi dove gli interessi economici sono molto forti, e di conseguenza diventa molto forte anche la tentazione di imbrogliare. Inoltre c’è un dato interessante relativo al conflitto di interessi. Tenga conto che adesso le riviste chiedono agli scienziati autori degli articoli di dichiarare esplicitamente gli eventuali conflitti di interessi. Ebbene, alcune riviste hanno analizzato la correttezza di queste dichiarazioni e hanno scoperto che spesso queste dichiarazioni non sono veritiere: lo scienziato sostiene di non avere alcun conflitto di interessi… e invece il conflitto c’è. Questa non dimostra che c’è anche un frode, ma senza dubbio solleva delle domande.

Ma il conflitto è davvero importante?

Nel 2004 “Nature” ha studiato la letteratura scientifica su un farmaco per i problemi cardiaci. C’erano lavori da cui emergeva che il farmaco faceva bene, altri che mostravano che esso non faceva nulla, altri ancora che evidenziavano effetti collaterali negativi. Ebbene, questi risultati si correlavano molto bene con le attività di sponsorizzazione della ricerca da parte delle case farmaceutiche. Questo mostra quanto sia importante che gli scienziati dichiarino esplicitamente se hanno o non hanno conflitti di interessi e se le loro ricerche sono state finanziate da qualcuno che ha degli interessi economici nei risultati ottenuti.

Altra questione è il plagio. Che cos’è?

Per plagio si intende l’uso di risultati, grafici, figure o interi testi scritti da altri, ma senza citare la fonte. Questo con lo scopo di impadronirsi del primato su una scoperta, un risultato, un’idea. Di solito chi pratica il plagio è legato a un interesse diverso rispetto a chi imbroglia. Lo scopo è quello di costruirsi una carriera sfruttando il lavoro altrui.

Ed è facile?

Lei pensi che solo in fisica esce un milione di articoli all’anno: lo spazio è grande.

Com’è possibile difendersi dal plagio?

C’è arXiv, un sito Internet appositamente costruito dalla Cornell University. Se io pubblico un mio articolo su arXiv, stabilisco un termine temporale per avere la priorità della scoperta. Daria Sorokina, una ricercatrice della Cornell, ha creato un software molto accurato che in poco tempo analizza centinaia di migliaia di articoli e va a caccia di periodi che si ripetono uguali. Applicato a un milione di articoli, ne ha scovati circa 10 mila che mostravano indizi di scopiazzatura.

L’1 per cento. A me sembra parecchio.

Però c’è caso e caso. Può essere una questione di lingua. Gli scienziati non di lingua madre inglese possono essere tentati di mutuare delle frasi da articoli di colleghi madrelingua perché si accorgono che sono scritte meglio di come le scriverebbero loro. Non sta bene, ma è una forma di plagio meno grave. Poi però ci sono anche casi di vera e propria copia integrale e fraudolenta. Per esempio, il caso che aveva indotto a creare il software indagatore riguardava alcuni dottorandi di due università di Ankara, in Turchia, che avevano pubblicato articoli di fisica matematica in gran parte copiati da riviste russe e che erano stati scoperti perché uno degli scienziati russi vittime del plagio aveva riconosciuto i propri lavori.

C’è quindi anche il problema della lingua. E’ impossibile realizzare un software che riconosca il plagio quando consiste in una traduzione da una lingua all’altra.

In effetti potrebbe succedere che in qualche Paese qualcuno si sia costruito una carriera copiando in questo modo i lavori di altri.

Magari traducendo in inglese articoli pubblicati su riviste in altre lingue?

C’è il sospetto che sia successo durante la Guerra Fredda, quando i Sovietici pubblicavano in russo sulle proprie riviste, che però non circolavano molto. Qualche occidentale che aveva accesso a quelle riviste potrebbe aver copiato i loro risultati. Però siamo a livello di gossip.

Un caso delicato è quello dei referee. Come può uno scienziato difendersi dal plagio quando il plagiatore è un referee?

Questo compito di difesa spetta alle riviste. La rivista sa a chi ha sottoposto il lavoro per averne una valutazione. Perciò rimane memoria di chi ha letto e giudicato la ricerca e per primo ha avuto accesso ai risultati. Se succede che lo stesso referee pubblichi un risultato analogo, la rivista è in grado di fare chiarezza. In casi particolari, poi, si possono prendere altre precauzioni. Prenda il caso della superconduttività ad alta temperatura. A un certo punto emerse un risultato eclatante per un materiale non superconduttore, ceramico e non isolante: Bednorz e Müller dei Laboratori IBM di Zurigo scoprirono la superconduttività a 20 gradi in più rispetto a ogni risultato ottenuto negli 80 anni precedenti. Gli autori si resero subito conto che c’era il rischio che qualcun altro arrivasse rapidamente alle stesse conclusioni. Perciò si rivolsero alla “Zeitschrift für Physik” e, in accordo con la rivista, convocarono i referee in laboratorio per ripetere l’esperimento. Insomma, concordarono il referaggio per essere certi che i risultati fossero noti solo alla redazione della rivista e agli stessi referee. Dopo la pubblicazione dell’articolo, si scatenò la ricerca e i risultati furono rapidamente migliorati di altri 60 gradi per materiali simili. In pochissimo tempo si aprì un enorme campo di possibilità. E’ significativo che il Nobel assegnato per quella scoperta fu uno dei più veloci della storia: solo un anno dopo il risultato.

E’ vero che la crescita delle ricerche dei Paesi emergenti ha anche fatto aumentare il numero dei casi di plagio?

Io ho l’impressione che in realtà si possa scrivere l’equazione “più scienza = più scienziati = più pubblicazioni = più plagio”. E’ importante capire se questo fenomeno finisca per ritardare la ricerca scientifica: è una questione molto dibattuta e non c’è l’unanimità. Di sicuro però c’è un problema etico. Secondo me è importante che l’etica professionale venga trasmessa agli studenti e ai dottorandi. Infatti il rischio più grave è che finiscano per occupare ruoli di prestigio, dai quali decidono il destino delle ricerche di altri scienziati, persone che non lo meritano.

Un caso famoso?

Un bel libro in tedesco, Der Sündenfall, di Marco Finetti e Armin Himmelrath, narra di un genetista molto noto, allora a Ulm, Herrmann, già direttore del Max-Delbrück-Centrum a Berlino, che fra l’altro aveva bocciato la richiesta di finanziamento a un gruppo di studiosi olandesi e poi aveva tradotto in tedesco la proposta olandese ed era riuscito a farsela finanziare da un’altra fonte. Inoltre aveva visitato un laboratorio giapponese, dove si era impadronito dei risultati ottenuti e li aveva ripubblicati quando era tornato nel proprio gruppo di ricerca. Osservando le sue foto sulle riviste, gli scienziati giapponesi si stupivano che avesse ottenuto gli stessi, identici risultati.

E com’è stato smascherato?

Questo è un ulteriore esempio della bontà della favola di Andersen, quella dove un bambino grida che il re è nudo. Un neodottorato si accorse che nel suo gruppo non si lavorava correttamente. Così andò a parlarne con Herrmann, che però lo trattò male e lo minacciò anche. Così il giovane ricercatore si rivolse al suo mentore precedente, il quale si adoperò per mettere in piedi una commissione d’inchiesta, che finì per scoprire il tutto.

Come nel caso di Schön, con la telefonata anonima iniziale, anche qui è centrale il ruolo di una “talpa”.

Chi è più vicino al “perpetratore” ha gli strumenti migliori per capire. E’ molto importante che nell’attività di un gruppo di ricerca tutto sia molto chiaro e trasparente. Per questo è essenziale il ruolo giocato dal capogruppo.

Negli episodi che lei ha descritto continua a tornare la Germania. Significa che i Tedeschi sono più propensi all’imbroglio e al plagio oppure che in Germania l’attenzione è maggiore?

Direi la seconda ipotesi. Non penso che ci sia una specializzazione nazionale, che una nazione sia più portata alla frode di altre. Però ritengo che un ruolo importante lo giochi il riconoscimento del ruolo della scienza nella società. Consideri il caso del ministro tedesco che nei mesi scorsi è stato costretto alle dimissioni perché si è scoperto che aveva copiato la propria tesi di dottorato. Un fatto analogo non avrebbe avuto le stesse conseguenze in Italia, perché nel nostro Paese non viene riconosciuto alla scienza il suo ruolo fondamentale e così non c’è l’idea che lo scienziato debba mantenere una condotta etica irreprensibile. Invece in Germania e anche negli Stati Uniti il ruolo sociale e quindi anche etico della scienza è molto importante. La società investe nella scienza. Il taxpayer ci mette i propri soldi e giustamente esige che nell’investimento venga rispettata una certa deontologia professionale da parte degli scienziati. In altri Paesi, come l’Italia, si fa tutto più alla carlona. I casi magari ci sono, ma non hanno risonanza e finiscono per non essere perseguiti.


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