Magazine Talenti
Chiudo gli occhi.
Nel vuoto della mia mente osservo il riecheggiare di ombre contorte, scopro che sono asettiche frasi desunte da antologie studiate in precedenza.
La titubanza di Carlo Alberto, il ramo di iperbole equilatera uscente dall'origine delle assi, “codesto” che è un pronome dimostrativo, “nessuno” che è un pronome indefinito, il dare e l'avere, i presocratici, Talete e l'acqua, Democrito e gli atomi, ma, ta sa, mon, ton, son.
Soltanto ombre.
Ma c'è altro, vedo alberi colorati che sfidano la forza di gravità e puntano dritti verso il centro dell'universo.
C'è anche qualcosa della giornata appena vissuta, il volto stanco della signora Carelli, le rughe di mia nonna, gli orecchini della signora Verdi che brillano sotto la luce dei neon, miliardi di pesche, decine di cocomeri, una distesa infinita di pasta fresca che fa il giro del mondo e lo avvolge fino a formare un immenso raviolo ripieno di noi.
Realtà e fantasia.
Mare in tempesta, neri che si dondolano su un albero spoglio, corpi nudi mentre si attorcigliano sudati su prati, pane e companatico, il sole e il firmamento, la domenica alla messa e cavalieri alla riscossa.
Apro gli occhi.
Mi alzo dal divano.
Cerco carta e penna, vorrei anche un cd di buona musica.
Mi siedo alla scrivania, ho in mente qualcosa.
Per non creare scompiglio e non disturbare i vicini, mi metto le cuffie e ascolto a tutto volume il sound strepitoso dei Duft Punk.
Tengo il tempo con il piede destro, con le braccia agito aria elettrica sopra la mia testa.
Osservo il foglio e le sue righe orizzontali.
La musica mi carica come dovrebbe e le immagini scorrono velocemente nella mia mente.
Raccolgo con la mia mano sinistra un pennarello e come uno di quei pittori schizzati e folli, rapiti da un'ispirazione istintiva e, a suo modo, irruenta, dipingo sul foglio parole che non hanno la pretesa di essere nient'altro che parole su di un foglio.
Un foglio non mi basta, la mia mano riempie spazi vuoti con la voracità di un lupo, provo piacere, è un piacere che dà dipendenza e mi imprigiona.
Finisco di scrivere, ho la sensazione di aver finito e questo è bastante per interrompere le mie gesta.
Rileggo quello che ho scritto, ci sono pagine intere riempite anche solo da verbi.
Sembra il lavoro di uno psicopatico.
Rileggo.
Il tutto, finisce così:
“Ok, sono l'ostica ostia offerta da un oste ubriaco all'ostile intreccio di intenzioni e aspirazioni.
Ok, la panzana è stata fatta, non è possibile poter tornare indietro.
Allora, mi lascio mangiare, consapevole di essere solo un povero Cristo.”
Chiudo gli occhi, le immagini continuano a scorrere e tengo il tempo della musica con il pennarello marrone con il quale ho scritto il tutto, lo sbatto sulla scrivania e seguo il ritmo.
La musica pompa forte e godo come un pazzo.
Mi abbandono nuovamente all'osservazione di quello che la mia mente si figura, bambini scalzi che rincorrono una palla rossa, un vecchio uomo panzone che si guarda la macchia di vino sulla canottiera bianca, mio fratello che incita la folla sotto di sé e la invita a lasciarsi andare.
Un crisantemo, un proiettile, un cotton fioc usato, un posacenere con sopra raffigurata una gondola, Holden che chiede a Luce come sono le asiatiche, fumo d' uovo affrittellato e un campo appena arato.
Riprendo in mano i fogli sui quali ho disegnato le parole.
Sono curioso di sapere quello che c'è disegnato.
Leggo, precedentemente a quello sopra già detto, c'è scritto:
“Non parliamo di me, ma degli animali, parliamo delle lucciole e dei serpenti, delle libellule e dei rinoceronti.
È giusto che sia così?
Dici di si?
Dici?
Voglio dire, devo lasciarmi fumare e lacerare dal dolore solo perché è così e basta?
Povero me.
Povere le libellule e i castori, le termiti e i tori.
È così e basta, non c'è tempo per un'altra canasta.
Chissà, se le piante e gli animali, capiscono quello che voglio dire, se anche loro hanno le mie stesse sensazioni.
Credo di si.
Ma ci sono, ora, su questa terra, e un motivo ci sarà.
Astronauta del cazzo, se non sai chi sei, è inutile star qui a parlare.
Lasciati trasportare.”
Mentre leggo, la musica si interrompe.
È saltata la corrente, c'è la lavatrice accesa e l'impianto non regge.
Lascio stare, mi preoccupa solo il fridge, ci sono delle pizze e forse si sciuperanno.
Scendo le scale e con un semplice gesto faccio brillare nuovamente tutte le spie di casa.
Mi rimetto le cuffie.
Riprendo tra le mani i fogli, manifesto della mia pazzia, ormai voglio rileggere tutto.
In principio, recitano le seguenti considerazioni:
“Tanti morsi sento sulla faccia, graffi sulla pancia e sul dorso.
Inadatto al sistema, troppo a mio modo, sono accettato a metà.
Realtà crudele, mi rendi incapace di vivere sereno.”
Prendo i fogli e li accartoccio, faccio un'enorme palla di pazzia e carta.
Spengo la musica e le luci, mi distendo sull'impiantito e mi pare ghiacciato.
Poi, mi alzo e metto la testa sotto l'acqua del lavandino.
Ho scritto io?
Mi guardo allo specchio del bagno e interrogo la mia faccia.
Pare di si.
Io, sono anche questo.
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