Raymond Queneau (in primo piano) attraversa lo specchio con baldanza, il suo tacco non sfiora l’acqua. Mezzogiorno e venti al grande orologio del capannone. La battaglia delle rotaie sarà per un’altra volta, un’altra pioggia – sebbene la scala sia già una barella e la tavola una salvezza. Sul ponte in primo piano (zoccolo della fotografia) lamiere e cerchioni giocano posatamente a diventare un monocolo, una parentesi. Più sullo sfondo, la carriola è ancora di legno. L’inferriata ancora di ghisa, come non se ne vedono più. Nel manifesto, Brailowsky ha da poco perso la B del suo occhiello nero. La sillaba SKY su sfondo bianco: se René Magritte la prelevasse per dire CIELO? Il perdigiorno di spalle non ha la Leica in tasca, né discrete matite o pennelli. Con una stretta al cuore, ascolta il battito delle macchine a vapore, osserva un’altra scena dove lui non si vede più.
Pierre AlechinskyNella mia memoria, il primo libro che ho visto con le fotografie di Henri Cartier-Bresson è stato Le Danze di Bali, pubblicato da Robert Delpire nel 1954, con un testo di Antonin Artaud sul teatro balinese. E’ questo testo che mi ha attratto, perché in Italia, in quegli anni, la cultura cominciava a recuperare il suo ritardo in materia di teoria e studio della fotografia. Poi tutti hanno conosciuto Cartier-Bresson e questa foto del 1952 dell’Aquila ricorda oggi molte altre fatte in Italia. Magnifiche di verità artistica.
Gae Aulenti
La geometria del muro – fin dall’inconfutabile spigolo in primo piano, poi correndo lungo la prospettiva fino a ingentilirsi nel profilo leggero di un ponte, in un movimento ad ESSE che suggerisce la traiettoria di una fuga da cartoon sovietico – la geometria del muro, dunque, allestirebbe da sé una foto assolutamente ordinaria, alla portata di qualsiasi normale turista fotomunito, il quale certo l’avrebbe catalogata tra le sue foto BELLE, in virtù probabilmente di quel tocco simil-artistico che le procurano i due passeggianti sulla destra, (fumando, quello di sinistra, si intuisce, più cauto l’altro) e forse anche l’uomo a torso nudo con sguardo nel nulla, piccolo a metà della fuga prospettica, e persino in definitiva l’uomo che scappa dalla foto sul bordo a dritta, tagliato in due e interrotto dal taglio del formato (voluto? casuale?), quasi scritta in calce recitante: continua.Ma.Ma la realtà dei fatti mostra dolorosamente come sia provvisoria una simile interpretazione delle cose, risultando evidente che la geometria del muro – fin dal ponte sottile sullo sfondo, poi risalendo lungo la prospettiva fino a ingigantirsi in uno spigolo inconfutabile – è usata dal Maestro per schiacciarci negli occhi la figura assurda di un uomo che sta al sole, giacché stare al sole è l’unica cosa che si possa dire con certezza di lui, qualsiasi altra illazione essendo, infatti, arbitraria, sia che si appunti alla posizione delle mani, sia che tenti di assegnare un qualsiasi scopo a quel non gesto, e tanto più se si attardi a domandarsi il perché di quella nudità, o addirittura il perché di quell’agghiacciante tanga scuro (immediato corto circuito col cappello del passeggiante che fuma, forse fuma, non si sa – gente col cappello, gente col tanga – mondo in vacca). Figura, quella dell’uomo, sgradevole fino al parossismo, e triste come un graffito pornografico sulla polvere di una porta in disuso. Figura, quella dell’uomo, che si divora la foto, ed in definitiva, diventa la foto, facendola evadere per sempre dall’orizzonte domestico del turista ordinario e fotomunito, e liberandola verso il livello superiore del Maestro, là dove la sua assurdità stacca rintocchi in bianco e nero di mondo accaduto e mai guarito.Anche a cercare bene, tra l’altro, neanche una donna.
Alessandro Baricco