Sikh del Khalsa davanti al Tempio di Pessina Cremonese (Cremona). Foto di Marco Restelli
Cari lettori, ecco un mio saggio sull’immigrazione indiana in Italia – e in particolare sull’immigrazione sikh – pubblicato nel dicembre 2013 in un volume di Autori Vari della Biblioteca Ambrosiana di Milano. Per semplificare la lettura a chi ha poco tempo o sia interessato solo a un aspetto particolare, ecco i titoli dei vari paragrafi: “Immigrazione indiana e immigrazione sikh”, “I gurdvara, i langar e l’accoglienza dell’ altro“, “Insediamenti sikh, reti migratorie e reti famigliari”, “La condizione femminile nella famiglia sikh immigrata”, “I ragazzi sikh nella scuola italiana”, “Problematiche del riconoscimento del Sikhismo in Italia”. Alla fine del saggio chi vuole approfondire troverà indicazioni bibliografiche e sitografiche. Attendo come sempre i vostri commenti, osservazioni, critiche, ecc…Buona lettura!
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Restelli Marco: «I sikh in Italia. Fra identità religiosa, nuova cittadinanza e riconfigurazioni familiari», in Maria Angelillo (a cura di), La famiglia nelle culture e nelle società dell’Asia. Accademia Ambrosiana, Asiatica Ambrosiana n. 5, Biblioteca Ambrosiana-Bulzoni Editore, Milano-Roma, 2013, pp. 49-67.
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Il 17 novembre 2012 si è tenuta a Villa Castelbarco di Vaprio d’Adda, in provincia di Milano, la cerimonia dei Sikh channel people awards 2012. Sikh Channel è una tv britannica che dagli studi di Birmingham e Londra trasmette in Europa programmi di cultura religiosa e news relative alla vita delle comunità sikh residenti in vari Paesi europei ma naturalmente anche in India. Sikh Channel si configura quindi come un importante strumento di riaffermazione identitaria dei sikh immigrati in Europa e del loro legame con la madrepatria. Ogni anno la tv britannica sceglie una nazione europea con una significativa presenza sikh e conferisce i People awards a membri della comunità che si siano distinti per particolari meriti: viene attribuito quindi un premio al filantropo più generoso, all’agricoltore più abile, al migliore educatore, al sevadar[1] che abbia offerto un contributo importante alla comunità e/o a un gurdvara (tempio) e così via…Nel comunicato dei People Awards diffuso via internet si legge che scopo dell’edizione 2012 è celebrare «il contributo significativo dato dai sikh all’economia e alla società italiane. I 70.000 sikh in Italia rappresentano oggi la seconda comunità sikh più grande d’Europa dopo il Regno Unito e questo è uno dei motivi principali per cui i Sikh channel people awards si svolgono in Italia quest’anno»[2].
E’ significativo notare come questa celebrazione – svoltasi in Italia, diretta a sikh residenti in Italia ma connotata anche da una eco europea – sia stata totalmente ignorata dai rappresentanti delle istituzioni italiane così come dai media italiani. Il significato e l’importanza dell’evento non sono stati colti. Tale silenzio è rivelatore della scarsa conoscenza che tuttora circonda i sikh immigrati nel nostro Paese (e, più in generale, in Europa).
Va rilevato inoltre che una scarsa attenzione nei confronti del fenomeno migratorio sikh in Europa ha riguardato, fino a pochi anni fa, anche gli autori di Sikh studies. L’emigrazione dei sikh al di fuori dei confini indiani è un fenomeno che ormai ha oltre un secolo di vita; tuttavia il campo dei Sikh studies, pur così prodigo di opere di alta qualità sulla religione e la storia sikh[3] , solo in anni recenti si è volto ad analizzare i percorsi di territorializzazione e i relativi mutamenti identitari dei sikh nei Paesi europei[4].
IMMIGRAZIONE INDIANA E IMMIGRAZIONE SIKH
La presenza sikh in Italia si inquadra naturalmente nel più generale fenomeno della diaspora indiana, che attualmente conta quasi trenta milioni di persone nel mondo, con picchi di oltre un milione di indiani in Paesi occidentali quali la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e il Canada[5]. Per fare un primo raffronto di carattere numerico/percentuale del rapporto fra emigrazione indiana in generale ed emigrazione sikh in particolare, è utile considerare il caso della Gran Bretagna. Nel Regno Unito la presenza sikh è antica e ben individuata all’interno del mondo anglo-indiano: secondo il censimento del 2001 nel Regno Unito vivono circa 336.000 seguaci della religione fondata nel XVI secolo da Guru Nanak in Panjab. Ne possiamo dedurre che in Gran Bretagna i sikh sono quasi un terzo del totale degli indiani presenti. La vita spirituale, culturale e sociale dei sikh inglesi ruota intorno a oltre 200 gurdvara, il primo dei quali venne eretto nel 1911[6].
L’immigrazione indiana in Italia invece è un fenomeno molto più recente: nel 2001 gli indiani residenti nel nostro Paese erano appena 27.000. Oggi sono circa il quintuplo: 121.036 persone al 1° gennaio 2011, secondo l’ultimo censimento Istat; 145.164 persone invece per il rapporto Caritas-Migrantes 2012, che fa notare come l’Italia sia ormai il secondo Stato membro dell’Unione Europea (dopo la Gran Bretagna appunto) per quanto riguarda la presenza di indiani[7]. Gli immigrati dall’India nel nostro Paese mantengono generalmente uno stretto rapporto con la madrepatria, come evidenzia anche il fenomeno delle rimesse: secondo il Rapporto 2012 sull’economia dell’immigrazione in Italia, realizzato dalla Fondazione Leone Moressa, nell’ultimo anno considerato il flusso delle somme inviate dagli immigrati verso l’India ha registrato un notevolissimo incremento, pari al 54,3%, segno perlomeno di una stabilizzazione della loro condizione socioeconomica[8].
E’ inoltre necessario notare come stiano cambiando le richieste di permesso di soggiorno avanzate dagli indiani in Italia. Nel 2010 sono stati 15.195 i permessi di soggiorno per motivi di lavoro concessi a indiani maschi, e soltanto 1.245 quelli concessi per la medesima ragione alle donne. Il fatto è indicativo di un fenomeno in corso in questi ultimi anni: la diminuzione percentuale delle richieste di ingresso per lavoro e il contemporaneo aumento delle richieste per ricongiungimento famigliare, che riguardano soprattutto le donne. L’aumento dei ricongiungimenti conferma il miglioramento della condizione degli indiani in Italia, denota una migliore ‘visibilità sociale’ delle famiglie indiane e implica una più intensa relazione fra queste e le strutture territoriali italiane (scuole, unità sanitarie, eccetera). Tutto ciò evidenzia (o meglio evidenzierebbe) la necessità di più interventi da parte dei mediatori culturali, figure indispensabili in una società multiculturale come la nostra ma che oggi, a causa della crisi economica, vengono spesso ‘tagliate’ dagli enti locali alle prese con difficoltà di bilancio. La crescente presenza di immigrati in Italia in tutte le nostre istituzioni (si pensi alle problematiche dei bimbi extracomunitari inseriti nella scuola italiana) richiederebbe invece uno sforzo di consapevolezza da parte delle autorità italiane nel senso di un crescente riconoscimento dell’utilità sociale dei mediatori culturali[9].
Venendo allo specifico dell’immigrazione sikh in Italia, quantificare la loro presenza nel nostro Paese è complesso, poiché gli immigrati indiani non si registrano in base all’appartenenza religiosa; tuttavia, se consideriamo la grande quantità di panjabi che lavorano nelle nostre campagne (e non solo) la stima numerica avanzata da Sikh channel (70.000 persone) non appare troppo lontana dal vero. Tenendo presente la cifra della presenza indiana in Italia proposta dal citato Rapporto Caritas-Migrantes 2012 (cioè 145.164 persone) i sikh sarebbero dunque poco meno della metà degli indiani residenti in Italia. I dati che abbiamo qui presentato sulla Gran Bretagna e sull’Italia confermano quanto è già noto da tempo, ossia che i sikh sono una comunità transnazionale con una coscienza diasporica: non a caso, benché in India costituiscano appena il 2% della popolazione, nei Paesi di immigrazione la percentuale dei sikh sul totale degli indiani è considerevolmente più alta.
Non è questa la sede per un’ approfondita analisi delle origini storiche di tale identità transnazionale e diasporica (le sue più antiche radici affondano nella perdita dell’indipendenza sikh con la caduta del regno di Ranjit Singh in Panjab e la sua annessione al Raj britannico nel 1849)[10]. Considerando il fenomeno da una prospettiva storica va rilevato comunque che l’emigrazione sikh dal Panjab è avvenuta in tre ondate successive, solo l’ultima delle quali riguarda anche l’Italia. In estrema sintesi: la prima ondata si verificò durante il Raj britannico, all’inizio del XX secolo, quando i sikh cominciarono ad emigrare verso altre colonie del vasto impero britannico cercando nuove opportunità rispetto ai tradizionali impieghi nell’esercito del Raj o nell’agricoltura. La seconda ondata fu quella successiva alla sanguinosa divisione fra India e Pakistan nel 1947 e alla conseguente divisione del Panjab, a proposito della quale circolò fra i sikh una significativa domanda attribuita a Master Tara Singh: «Gli hindu hanno avuto l’India e i musulmani hanno avuto il Pakistan. I sikh che cosa hanno avuto?».
La terza ondata migratoria – che a differenza delle altre riguarda anche il nostro Paese – venne invece provocata dai tragici fatti del 1984 e dalla lunga scia di sangue conseguente ad essi: l’Operazione Blue Star e l’attacco al Tempio d’Oro di Amritsar, dov’erano asserragliati i terroristi guidati da Sant Jarnail Singh Bhindranwale, sostenitori della creazione di uno Stato sikh indipendente, il Khalistan; lo choc di tutta l’opinione pubblica sikh (anche della gran parte avversa ai terroristi) per la profanazione del Tempio operata dall’esercito indiano; l’omicidio del Primo Ministro Indira Gandhi per mano delle sue guardie del corpo sikh; la feroce ‘caccia al sikh’ scatenata dagli hindu a Delhi per vendicare la morte di Indira; la guerra civile, gli attentati terroristici e la dura repressione che lacerarono il Panjab fino alla seconda metà degli anni Novanta del secolo scorso[11]. Tutti questi eventi concorsero a rendere pressocché invivibile il Panjab per un decennio spingendo molti pacifici sikh a lasciare la loro terra natìa in cerca di una vita più sicura e serena, per sé e per le proprie famiglie, in altri Paesi.
E’ in tale doloroso contesto che, dopo il 1984, comincia l’immigrazione sikh in Italia. Inizialmente il nostro Paese viene percepito come una tappa ‘di seconda scelta’ rispetto, per esempio, alla Gran Bretagna. I primi sikh giungono nel centro-sud Italia: sono giovani maschi senza famiglia e con visto turistico, privi di un progetto di radicamento nella società italiana, e all’epoca lavorano perlopiù nei circhi e nelle giostre. Già dopo pochi anni però molti di loro tendono a trasferirsi nelle regioni italiane del centro-nord dove trovano occupazioni più stabili e iniziano a comportarsi (in termini sociologici) come ‘scout’, ovvero a fare da ‘teste di ponte’ per l’immigrazione di altri, parenti e amici. In breve tempo il nostro Paese diventa un’interessante meta di immigrazione per i seguaci di Guru Nanak. Vengono così a crearsi le prime piccole comunità sikh italiane e con esse, significativamente, ad essere fondati i primi gurdvara, come quello a Rio Saliceto (Reggio Emilia), nato nel 1990 dalla trasformazione di un vecchio mulino. Si assiste quindi molto presto anche nel nostro Paese a un fenomeno diffuso nel mondo della diaspora sikh: la creazione di gurdvara come elementi identitari fondativi delle comunità. Esaminiamo dunque il ruolo odierno di questi templi nelle comunità sikh del nostro Paese.
I GURDVARA, I LANGAR E L’ACCOGLIENZA DELL’ ‘ALTRO’
Oltre a non esservi certezza sul numero esatto dei sikh presenti nel nostro Paese manca per ora anche un censimento dei gurdvara italiani; tuttavia in base alle conoscenze di chi scrive dovrebbero essere circa una ventina. Il più importante di essi si trova a Novellara (Reggio Emilia) e venne fondato nel 2000 con una cerimonia pubblica cui intervenne l’allora presidente della Commissione europea, Romano Prodi. Questo numero relativamente esiguo di gurdvara italiani – specie se rapportato ai 200 presenti in Gran Bretagna – non deve ingannare: è dovuto solo al fatto che l’immigrazione sikh nel nostro Paese è un fenomeno “giovane”, iniziato nella seconda metà degli anni Ottanta del secolo scorso.
Va sottolineato che il sikhismo prevede un rapporto diretto fra uomo e Dio ma non concepisce la vita religiosa come una questione privata bensì in una dimensione collettiva. Il tempio si configura dunque come un centro di formazione religiosa ma anche di scambio di informazioni parentali, è il luogo dove l’immigrato sikh può ritrovarsi al centro di una rete di relazioni affettive e valoriali che trascende i confini nazionali, è il centro che accoglie religiosi (sant) provenienti dall’estero, è il luogo, infine, dove si organizzano nuove immigrazioni di parenti e amici, o raccolte di fondi per la comunità o per i singoli. Tale dimensione identitaria collettiva ha concorso, nel caso dei sikh immigrati in Italia, a determinare anche i loro percorsi di insediamento in porzioni ristrette del nostro territorio, scelte in base alle opportunità di lavoro offerte ai sikh e poi trasformate – in tempi relativamente brevi – in ‘piccoli Panjab’, dove sono cresciute comunità coese, che hanno il proprio cuore pulsante nel luogo della religiosità condivisa e delle relazioni sociali, cioè il gurdvara e l’annessa cucina comunitaria, il langar [12].
Anche in Italia come altrove appare dunque chiara, nella vita delle comunità sikh, la centralità dei gurdvara, che assolvono a quattro funzioni essenziali: 1) luoghi di culto; 2) luoghi di rappresentanza pubblica della comunità rispetto alle istituzioni del Paese ospitante; 3) luoghi di socializzazione delle famiglie multigenerazionali attraverso il pasto comune che viene offerto gratuitamente a chiunque si presenti nei langar annessi ai templi; 4) luoghi di accoglienza dell’ ‘altro’ (sia nel tempio sia nella cucina comunitaria) chiunque esso sia, a prescindere dall’appartenenza religiosa, dalla casta, eccetera.
L’accoglienza, va ricordato, è un valore fondamentale della spiritualità e dell’ortoprassi sikh e si intende qui ‘accoglienza’ sia in senso spirituale sia in senso fisico. Qualche esempio: il testo sacro dei sikh, il Guru Granth Sahib, accoglie in sé inni di mistici hindu e musulmani[13]; le porte del Tempio d’Oro di Amritsar sono aperte verso i quattro punti cardinali per accogliere viaggiatori provenienti da ogni dove; i langar del Tempio d’Oro sono in grado di sfamare fino a cinquantamila persone al giorno grazie ai pasti preparati (e ai piatti lavati) da centinaia di persone che fanno servizio volontario (seva) nella cucine comunitarie[14]; nella cittadina di Faridkot, in Panjab, c’è un gurdvara che accoglie nel proprio compound un santuario di un mistico musulmano del XIII secolo, Baba Farid, alcuni inni del quale sono compresi nel Guru Granth Sahib: a Faridkot si vedono quindi musulmani e sikh pregare vicini e in armonia[15].
Questo spirito di accoglienza che caratterizza i gurdvara (anche italiani) è stato corrisposto, nel nostro Paese, dalla Chiesa cattolica, che nelle sue varie articolazioni territoriali ha accolto i sikh favorendo il loro insediamento e intessendo con loro una fitta rete di relazioni sociali, spirituali e anche pedagogiche, dando vita, ove possibile, a un dialogo interreligioso. Fu così nel caso del sopracitato gurdvara di Novellara ed è stato così anche nel recente caso della fondazione di un grande tempio a Pessina Cremonese (Cremona). Questo nuovo gurdvara – secondo per importanza solo a quello di Novellara – è stato inaugurato nell’agosto 2011 con i buoni auspici di vari rappresentanti della diocesi cremonese (oltreché delle autorità comunali) che hanno fatto il possibile per propiziare l’integrazione dei sikh nel tessuto sociale del territorio. Si sono così stemperate le iniziali perplessità di una parte della popolazione locale, in genere comunque ormai orientata a giudicare positivamente i sikh, visti come «persone serie che lavorano sodo»[16].
Infine, è importante notare che in questi ultimi anni ha avuto inizio una produzione di materiali di informazione religiosa in lingua italiana da parte dei gurdvara più attivi – come quello di Flero, nel bresciano – sia nel campo dell’editoria cartacea sia su internet[17].
INSEDIAMENTI SIKH, RETI MIGRATORIE E RETI FAMIGLIARI
Zone come il cremonese, il reggiano e il bresciano offrono esempi di insediamenti abbastanza riusciti dei sikh, con buone opportunità di trovare lavoro e casa. Nella pianura padana i sikh sono impiegati soprattutto come bergamini (cioè come addetti all’allevamento delle mucche da latte), nell’industria casearia e nelle aziende agricole. A questo proposito si è parlato a volte nei media italiani di ‘specializzazione etnica’ dei sikh, dovuta al fatto che la loro terra d’origine, il Panjab, è uno Stato ad economia agricola (noto come ‘il granaio dell’India’) e che il paesaggio del Panjab presenta delle indubbie somiglianze con quello della pianura padana. Il concetto di ‘specializzazione etnica’ però si presta a troppe ambiguità e fraintendimenti (senza dimenticare che viene applicato a una comunità che non è etnica bensì religiosa!) e andrebbe perciò evitato. Peraltro i sikh nel nostro Paese lavorano anche in tutt’altri settori: nel vicentino per esempio come conciatori di pellame nelle concerie.
Anche le condizioni di accoglienza, ovviamente, non sono sempre le stesse. Nella pianura padana l’insediamento di famiglie sikh – e quindi il loro progressivo allargamento in comunità – è propiziato anche dalla facilità di trovare casa, perché il contratto da bergamino prevede tradizionalmente che chi lavora nella stalla abbia diritto d’uso gratuito della vicina cascina, e ciò determina due importanti conseguenze: 1) avere una casa a disposizione permette i ricongiungimenti famigliari, cioè permette al lavoratore sikh di chiamare la moglie (o futura moglie) dal Panjab, creando una famiglia e un insediamento stabile; 2) spesso sono proprio i sikh a ‘riportare in vita’ le cascine abbandonate nella campagna padana. Viceversa, vi sono casi – come quello della provincia di Latina – in cui i maschi sikh impiegati in agricoltura lavorano spesso in condizioni di precarietà e sfruttamento senza potersi permettere una casa propria e questa mancanza di stabilità ostacola, fra l’altro, i ricongiungimenti famigliari[18].
Come abbiamo già accennato, gli immigrati sikh non sono distribuiti uniformemente sul territorio italiano, bensì concentrati soprattutto in alcune regioni, e in particolare in borghi minori di alcune province: in Lombardia nelle province di Brescia, Cremona e Bergamo; in Emilia Romagna nelle province di Reggio Emilia, Parma e Modena; in Veneto nella provincia di Vicenza; nel Lazio nelle province di Latina e, in minor misura, di Roma. Ma non mancano piccole comunità anche in Piemonte. La concentrazione territoriale in questo numero limitato di realtà provinciali è una dimostrazione della forte influenza delle reti migratorie (perché l’immigrato rimane sempre parte di una rete di relazioni con il Paese d’origine) e soprattutto della frequente sovrapponibilità fra reti migratorie e reti famigliari.
Fra i sikh infatti – come più in generale fra gli indiani – la decisione di emigrare non è mai presa da un singolo individuo bensì di concerto con i genitori e i parenti presenti nel villaggio d’origine ma anche in altri villaggi del Panjab, com’è d’uso nelle famiglie multigenerazionali indiane che mantengono strette relazioni parentali anche in caso di lontananza geografica fra i vari membri. L’emigrazione è un progetto famigliare che implica un forte impegno economico e investe il futuro dell’intera famiglia multigenerazionale perché lo ‘scout’ – in genere un giovane maschio – dopo essere giunto nel Paese d’immigrazione e avere verificato l’esistenza di buone possibilità d’insediamento (lavoro e casa) si impegna a formare una nuova famiglia facendo arrivare una ragazza dal proprio o da un altro villaggio del Panjab, spesso attraverso il meccanismo tradizionale – tuttora molto comune in India – del matrimonio combinato di carattere esogamico e patrilocale. Peraltro, le ragazze cresciute in un contesto rurale in Panjab accettano di buon grado questa proposta perché vedono nel matrimonio con un correligionario emigrato all’estero una possibilità di migliorare la condizione socioeconomica propria e della propria famiglia d’origine. Con il matrimonio si forma così una sorta di alleanza tra famiglie diverse che allargherà ulteriormente la rete migratoria fra il Panjab e il luogo prescelto per l’emigrazione: ciascun nuovo emigrato infatti, raggiunta a propria volta un’accettabile condizione socioeconomica, chiamerà a sè parenti e amici del proprio o di altri villaggi panjabi, persone spesso imparentate con altre già emigrate in altri Paesi europei. Con il tempo perciò la famiglia multigenerazionale acquisisce nuove caratteristiche trasformandosi in famiglia transnazionale, basata su una fitta ‘relazione triadica’ fra persone immigrate in Italia (nel nostro caso), parenti stretti o acquisiti rimasti in Panjab, e altri parenti stretti o acquisiti emigrati in diverso Paese europeo[19].
L’esito positivo di questo progetto famigliare di emigrazione conferisce prestigio sia all’emigrato sia ai parenti rimasti nella madrepatria; spesso un segno tangibile di questo nuova condizione è l’impegno da parte dell’emigrato (magari in collaborazione con fratelli anch’essi all’estero) a rimodernare e ampliare la casa degli anziani genitori qualora essi siano rimasti in India. Un altro segno tangibile di questa condizione di acquisito benessere (e quindi di prestigio sociale) è dato, come abbiamo già accennato, dalle rimesse inviate in India; a questo proposito è interessante notare un nuovo e auspicabile fenomeno che va diffondendosi nelle comunità sikh economicamente più floride e di più antico insediamento (sopratutto in Gran Bretagna): le rimesse in Panjab cominciano ad essere destinate a specifici progetti di sostegno alle donne in vari campi, dalla scolarizzazione delle ragazze all’aiuto alle madri disagiate, dal micro-credito alla tutela della salute femminile[20]. Tale fenomeno riflette una (per ora minoritaria) nuova sensibilità presente nella parte più avanzata del mondo della diaspora sikh, ove si assiste a una serie di mutamenti culturali in particolare fra le donne, mutamenti che talora rendono ancora più palese la differenza di condizione fra le sikh emigrate in occidente e le sikh rimaste in Panjab.
LA CONDIZIONE FEMMINILE NELLA FAMIGLIA SIKH IMMIGRATA
Il sikhismo attribuisce pari dignità all’uomo e alla donna ma, come noto, la realtà è molto diversa nella vita sociale dell’India e del Panjab, dove le donne, sopratutto al di fuori dei contesti urbani, sono tradizionalmente confinate al ruolo di ‘regina della casa’ e peraltro non hanno molta libertà nemmeno nella scelta dello sposo all’interno del matrimonio combinato. D’altro canto, la stessa libellistica sikh ispirata dal Khalsa (la ‘comunità dei puri’ di carattere marziale, fondata nel 1699 dal decimo Guru Govind Singh e oggi rappresentante l’ortodossia sikh) propone come precipui modelli femminili le mogli dei dieci Guru sikh, spose devote che furono pronte a trasformarsi in temibili guerriere per difendere la fede in battaglia[21].
Tuttavia, sia questi antichi modelli di eroismo religioso/militare sikh sia i tradizionali modelli di sottomissione femminile propri della società panjabi risultano incongrui alle donne sikh emigrate in Occidente, oggi impegnate in una faticosa ridefinizione della propria identità. E’ interessante rilevare che in un Paese europeo di antica immigrazione indiana come la Gran Bretagna le donne sikh abbiano avuto tempo e modo di acquisire una maggiore autonomia economica e culturale che in molti casi non soltanto non risulta in contrasto con la propria identità religiosa ma anzi rafforza quest’ultima. Infatti l’accresciuta partecipazione femminile alla conduzione delle comunità sikh (per esempio ricoprendo il ruolo tradizionalmente maschile del granthi, il lettore del Guru Granth Sahib) e un più alto grado di autonomia nelle proprie scelte anche in campo famigliare (con un passaggio da un matrimonio combinato a un matrimonio ‘assistito’, cioè propiziato dalla famiglia ma con un’ampia facoltà di scelta per la contraente) conduce al superamento dei tradizionali modelli culturali panjabi ma anche a un più profondo legame delle donne con la spiritualità sikh. Si invera così nella modernità l’originario messaggio di Guru Nanak sulla pari dignità fra uomini e donne di fronte a Dio[22].
In un Paese d’immigrazione sikh assai più recente come il nostro la situazione è ovviamente diversa e il maggior peso dei tradizionali modelli culturali panjabi comporta che la donna sikh immigrata in Italia sia ancora ‘un passo indietro’ rispetto all’uomo. Tuttavia vi è un tratto comune fra la situazione britannica e quella italiana: protagoniste della nuova famiglia sikh transnazionale sono le donne, che dopo l’emigrazione sperimentano cambiamenti di ruolo di differente natura – talvolta migliorativi, talaltra peggiorativi – perlopiù determinati dalla condizione economica e culturale della famiglia venuta a costituirsi nel Paese d’immigrazione.
Anche in Italia sono le donne sikh a determinare le nuove reti di relazione parentale transnazionale, secondo lo schema triadico che abbiamo già descritto (famiglia d’origine in India – nuova famiglia costituitasi in Italia – famiglie di parenti in altri Paesi d’emigrazione). I mariti infatti sono quasi sempre impossibilitati a viaggiare quando – come nel caso dei bergamini della pianura padana – sono legati al luogo di lavoro da un rapporto legalmente determinato e continuativo. Pertanto sono quasi sempre le donne sikh a viaggiare (si intende quelle che possono permetterselo economicamente) assumendosi così il compito di disegnare una nuova geografia delle relazioni parentali transnazionali, in pratica decidendo con chi la famiglia debba continuare a mantenere rapporti e con chi no. Le donne tengono i contatti con i parenti rimasti in Panjab, si spostano dall’Italia all’India e viceversa ricoprendo la funzione di corrieri di merci e di informazioni sulla vita della famiglia indiana multigenerazionale, viaggiano sia per ragioni famigliari (partecipare al matrimonio di una parente in Gran Bretagna o in Canada) sia per ragioni religiose (pellegrinaggi alle città sacre di Amritsar e Anandpur Sahib in occasione di festività religiose). Sono le donne, insomma, a consolidare il legame simbolico con la terra d’origine della famiglia ma anche a dare un senso compiuto alle relazioni con i parenti in altre terre d’emigrazione, con ciò acquisendo visibilità e prestigio all’interno della rete famigliare transnazionale. Peraltro, il cambiamento di ruolo nei rapporti di genere risulta ancora più evidente nei casi – attualmente sporadici ma in aumento – in cui è una giovane donna ad essere emigrata per prima in Italia e a chiamare poi a sé dal Panjab il futuro marito, dando così inizio a una nuova rete migratoria. Accade infatti talvolta che il prestigio sociale della nuova ‘pioniera’ della rete migratoria sia tale da non rendere più necessario il pagamento della dote (tradizionalmente dovuto dalla famiglia della sposa a quella dello sposo) proprio in ragione dell’impegno economico profuso dalla famiglia della sposa nel progetto migratorio[23].
Per contro, nelle famiglie sikh economicamente più deboli e/o culturalmente più arretrate le donne emigrate si trovano nella condizione opposta a quella sopra descritta: rischiano l’isolamento sociale. Bisogna considerare infatti che esse, nella grande maggioranza dei casi, raggiungono l’Italia anni dopo rispetto ai mariti: questi ultimi si sono già (almeno parzialmente) integrati ed escono a lavorare mentre le mogli si trovano in casa da sole ad affrontare mille problematiche senza conoscere la lingua italiana che il marito invece ha avuto il tempo di imparare. Si sforzano di mantenere i rapporti con le famiglie sikh in India e all’estero ma sovente non hanno altra occasione di incontrare proprie correligionarie se non quando, accompagnate dal marito, si recano alle celebrazioni nei gurdvara. Tornando al caso degli insediamenti sikh nella pianura padana, va ricordato che le cascine dei bergamini sono isolate nelle campagne e per le donne sikh di condizione disagiata ciò rappresenta un’ulteriore difficoltà, poiché esse non hanno quasi mai la patente di guida e la rete locale dei trasporti pubblici è spesso insufficiente. Finiscono quindi per avvertire un isolamento sociale che risulta tanto più disagevole nei momenti della gravidanza e del puerperio, quando invece in India la famiglia multigenerazionale avrebbe garantito alla donna un aiuto pratico e psicologico. Senza contare che per le neo-madri l’ignoranza della lingua italiana rende ancora più difficoltosi i rapporti con le strutture medico-ospedaliere[24].
In effetti sono tanti i casi in cui la famiglia immigrata dovrebbe potersi rivolgere a una struttura sociale del nostro territorio per ottenere un servizio ma troppo spesso gli immigrati non conoscono nemmeno l’esistenza di tali opportunità. Consideriamo l’esempio di un servizio alle famiglie – a disposizione degli immigrati ma non solo – offerto dalla Regione Lombardia: il Fondo Nasko. La crisi economica che sta colpendo il nostro Paese non risparmia ovviamente le famiglie immigrate; accade talvolta che le famiglie indiane – tradizionalmente abituate a una prole numerosa – ritengano di non poter avere altri figli e si rivolgano alle strutture sanitarie per interrompere le gravidanze. Il Fondo Nasko è stato avviato nel 2010 proprio al fine di offrire un sostegno economico a tutela del diritto alla maternità e a favore della natalità, utilizzabile per l’acquisto di beni e servizi per la madre e il bambino. Per l’anno in corso (2013) la Regione Lombardia ha stanziato 5 milioni di euro: si tratta di 3.000 euro per ogni donna, erogabili per un massimo di 18 mesi, a disposizione delle future mamme che rinunciano alla scelta di interrompere volontariamente la gravidanza in presenza di una proposta di progetto d’aiuto personalizzato. Purtroppo però sono frequenti i casi in cui le donne indiane (sikh e non solo) vengono a sapere troppo tardi delle opportunità offerte dal Fondo Nasko oppure che, pur conoscendo l’esistenza del Fondo, non siano in grado (per ignoranza della lingua e della normativa italiana) di produrre la documentazione richiesta per usufruire del Fondo. E’ questo l’ennesimo caso che dovrebbe rendere evidente alle Autorità italiane la necessità della presenza di mediatori culturali nelle strutture territoriali, perché anche la difficoltà di accesso a questi o altri servizi di sostegno si presenta, per le donne immigrate, come una forma di isolamento sociale[25].
Tale senso di isolamento è maggiormente avvertito dai sikh (e in particolare dalle donne) nel caso in cui non vada a completarsi il progetto migratorio della famiglia multigenerazionale, cioè quando risulta impossibile ricreare in Italia una rete parentale paragonabile a quella esistente in India. Per ovviare al problema viene elaborata talvolta una sorta di strategia di resistenza sociale all’isolamento affettivo: il rapporto fiduciario intercorrente con altri immigrati vicini di casa, o persone originarie dello stesso villaggio indiano, vecchi amici o parenti di amici, nel contesto migratorio produce talvolta la tessitura di una nuova rete parentale fittizia, ove i parenti assenti (perché rimasti in India) vengono sostituiti in Italia da una rete di rapporti che implicano ruoli e obblighi analoghi a quelli che esistono fra consanguinei. Si viene cioè a sostituire nel contesto italiano la parentela reale con una ‘parentela sociale’ che risulta di sostegno e conforto alla famiglia immigrata[26].
I RAGAZZI SIKH NELLA SCUOLA ITALIANA
Nonostante l’attivazione di strategie di auto-aiuto come quella della ‘parentela sociale’, però, non sono infrequenti i casi in cui i figli delle famiglie sikh si trovino in una condizione di forte disagio piscologico e di sradicamento culturale, soprattutto quando la madre è assente. Accade infatti talvolta che il padre immigrato chiami a sé i figli maschi e lasci la loro madre per un certo periodo di tempo in India a curare la prole più piccina. In casi come questo il padre, a causa del lavoro, non ha tempo e modo di seguire i figli a scuola: sarà allora il figlio maggiore a prendersi cura del fratello minore, sottraendo tempo allo studio, mentre l’assenza in casa, de facto, di entrambi i genitori aggrava le difficoltà dei figli sia nel campo dell’inserimento sociale sia in quello dell’apprendimento scolastico. Difficoltà di vario genere per i figli si evidenziano comunque anche nel caso in cui la madre abbia seguito il padre nell’immigrazione; non si può dunque prescindere dall’esaminare il rapporto fra le famiglie sikh e l’istituzione fondamentale nella quale vengono inseriti i loro figli: la scuola. Vediamo quindi alcune delle più comuni problematiche.
Le famiglie indiane di più recente immigrazione, provenienti da un ambiente rurale e con un basso livello di scolarizzazione (com’è spesso il caso dei sikh in Italia) si presentano talvolta alla nostra scuola pubblica con grandi attese assistenziali: convinte di essere giunte in un Paese ‘ricco’ si aspettano, per esempio, di ricevere gratuitamente tutti gli strumenti didattici (libri, quaderni, ecc.) per il figlio studente; tocca all’insegnante l’ingrato compito di smentire quelle aspettative.
Da una già citata ricerca condotta fra gli indiani nella provincia di Bergamo[27] emerge con una certa frequenza un’altra problematica notata dagli insegnanti: l’incongruità fra l’età dichiarata dallo studente – ovvero l’età scritta sulla sua Carta di identità – e l’aspetto fisico dello studente stesso. Capita insomma che gli studenti sikh (e non solo) abbiano talvolta più anni di quanti dichiarino, perché le loro famiglie, al momento di procurare ai figli il passaporto e il visto, denunciano per essi un’età inferiore a quella reale. Le famiglie panjabi si comportano in tal modo per dare al figlio più tempo per frequentare la scuola dell’obbligo, imparare la lingua e adattarsi alla nuova realtà sociale prima di entrare nel mercato del lavoro. Non mancano poi le motivazioni di genere: l’età delle ragazze viene diminuita per ritardare il momento della loro autonomia (quel momento, ad esempio, in cui prenderanno l’autobus per recarsi da sole a frequentare un liceo in una città vicina).
Bisogna considerare inoltre le difficoltà di adattamento nel caso dei figli di famiglie sikh ‘ortodosse’ – ovvero aderenti al Khalsa – che sono portatrici di costumi ben differenti dai nostri. I costumi del Khalsa impongono per esempio ai bimbi maschi di raccogliere i capelli in un foulard o in un fazzoletto, formando così un piccolo chignon che diventerà un turbante in età adulta, ma tale costume tradizionale è oggetto di ironie, a scuola, da parte dei coetanei italiani, nonché fonte di isolamento per i piccoli sikh. Lo sradicamento sociale provoca nei bambini panjabi uno choc culturale che non tutti gli insegnanti sono in grado di decifrare ponendovi rimedio, sicché il disagio comportamentale del piccolo sikh può venire talora erroneamente inteso – in perfetta buona fede – come segno di un disturbo mentale.
La crescente presenza di ragazzini extracomunitari nelle classi di ogni ordine e grado propone dunque sfide pedagogiche molto impegnative al corpo insegnante, che spesso si sforza di documentarsi sulle culture originarie degli alunni onde attivare la relazione più proficua possibile con le loro famiglie. Da ciò deriva l’attuale, forte necessità di maggiore formazione per gli insegnanti nonché di maggiore informazione per i genitori extracomunitari (i quali peraltro hanno essi stessi un livello di scolarizzazione mediamente più basso rispetto agli italiani[28]).
A questo bisogno di informazione finalizzata all’integrazione sociale degli immigrati le nostre istituzioni locali rispondono in modi variegati e non sempre soddisfacenti, anche a causa dell’attuale crisi economica che limita la disponibilità di fondi; capita allora che siano associazioni private a intervenire producendo materiali informativi: è il caso di un opuscolo – realizzato in Lombardia nel 2010 da un Club privato – che presenta la scuola italiana in varie lingue extracomunitarie fra le quali la panjabi[29]. Va comunque sottolineato che non mancano, nella scuola italiana, gli esempi ‘virtuosi’, vale a dire esempi di istituti scolastici (come il 2° Istituto Comprensivo di Brescia) che hanno saputo confrontarsi con l’ondata migratoria non solo relazionandosi nei modi più opportuni con i giovani extracomunitari e le loro famiglie ma anche avviando una riflessione pedagogica tale da consentire lo sviluppo di una nuova didattica, capace di passare da un atteggiamento di assimilazione monoculturale dell’immigrato a una pratica educativa multiculturale[30].
Nell’ambito del dibattito sui temi del multiculturalismo e del dialogo interculturale si è sviluppata ovviamente da tempo anche la riflessione sull’ora di religione e la didattica delle religioni a scuola. Attualmente la presentazione e l’analisi di confessioni religiose diverse dalla cattolica è sostanzialmente lasciata alla disponibilità del singolo docente, ma poiché oggi la scuola rappresenta anche il luogo di elezione per la conoscenza interculturale, in anni recenti si sono moltiplicati gli appelli sull’opportunità di allargare lo sguardo degli alunni in chiave multireligiosa, nella consapevolezza dell’importanza che l’educazione religiosa riveste in una prospettiva di dialogo interculturale. A questo proposito vanno segnalate iniziative come la traduzione in italiano – promossa dalla rivista dei Missionari Saveriani Cem Mondialità – del manuale d’insegnamento delle religioni realizzato dal Centro di Educazione Interreligiosa di Bradford in Gran Bretagna, manuale che presenta uno studio comparato di sei religioni (cristianesimo, ebraismo, islam, induismo, buddhismo e sikhismo), utilizzato in duecento scuole britanniche[31].
L’Italia presenta ormai necessità non difformi da quelle avvertite in Gran Bretagna: necessità di conoscenza reciproca fra italiani e immigrati e quindi di riconoscimento – sul piano culturale e religioso ma anche giuridico – delle identità ‘altre’ rispetto a quella maggioritaria nella nostra società. Da parte degli immigrati indiani questo evidente bisogno di riconoscimento si manifesta nell’organizzazione di eventi finalizzati a presentare la propria cultura alla comunità italiana ospitante: un esempio è l’evento ‘Benvenuti in India’ realizzato a Parma nel settembre/ottobre 2012 dalla comunità indiana Sejuti con il concorso della Biblioteca Internazionale Ilaria Alpi, che ha coinvolto anche le scuole cittadine dove i piccoli hindu e sikh hanno raccontato ai propri compagni di classe ciò che sanno del proprio Paese di origine[32].
PROBLEMATICHE DEL RICONOSCIMENTO DEL SIKHISMO IN ITALIA
Le comunità sikh insediatesi nel nostro Paese manifestano un implicito desiderio di riconoscimento sociale anche quando organizzano celebrazioni pubbliche delle proprie festività religiose, quali quella che ricorda la fondazione del Khalsa ad opera di Guru Govind Singh nel 1699. In tali occasioni i sikh si presentano con un volto unitario, omogeneo e facilmente riconoscibile sin dall’abbigliamento, contrassegnato dalle regole delle “cinque k” stabilite da Guru Govind Singh per tutti gli aderenti al Khalsa: 1) kesh, cioè barba folta e capelli lunghi raccolti sotto il turbante; 2) kangha, un pettine nella capigliatura; 3) kara, un braccialetto d’acciaio al polso; 4) kacha, un calzone a mezza gamba; 5) kirpan, il pugnale portato da tutti i membri maschili e femminili del Khalsa, che può diventare una spada nelle celebrazioni pubbliche di carattere religioso. Questi sono i simboli esibiti dagli amritdhari, cioè coloro i quali hanno compiuto la cerimonia dell’Amrit pahal prendendo i voti del Khalsa, una cerimonia che i sikh stessi definiscono ‘battesimo’: viene celebrata in occasione del raggiungimento della maturità da parte del giovane e costituisce uno dei quattro riti famigliari del mondo sikh (insieme all’imposizione del nome alla nascita, al matrimonio e al funerale). Va ricordato però che non tutti i sikh sono amritdhari perché non tutti accettarono (né accettano oggi) la riforma della comunità in senso marziale voluta da Guru Govind Singh, preferendo rimanere legati solo al messaggio originario del primo Guru, Nanak, ivi comprese le indubbie influenze che alcune correnti hindu esercitarono sul sikhismo all’epoca della sua nascita. Tuttora esistono dunque molti sikh genericamente detti sahajdhari i quali non aderiscono al Khalsa e alle sue regole e di conseguenza non si distinguono nell’aspetto da qualsiasi altro indiano. In questo senso si può parlare di ‘due volti del sikh panth’ e di una identità religiosa plurale, non univoca, all’interno del mondo sikh sia in India sia nei territori di emigrazione. Due ‘volti’ del sikh panth che nel corso del tempo, in India, non hanno mancato di confliggere su tutti i piani[33].
Bisogna tuttavia sottolineare che sono stati gli amritdhari membri del Khalsa a divenire, negli ultimi 150 anni, culturalmente e politicamente egemoni all’interno del mondo sikh[34]. Tanto da conquistare la gestione dei gurdwara e da autorappresentarsi come l’unica legittima ‘ortodossia’ del sikhismo, fino a spingersi nei casi più estremi a qualificare come ‘non sikh’ chi non aderisca al Khalsa e al suo spirito marziale. E’ dunque al Khalsa – cioè al ‘secondo volto’ (in senso temporale) del sikhismo – che dobbiamo guardare con maggiore attenzione, anche perché gli immigrati sikh in Italia sono in buona parte amritdhari, sono essi a rappresentare la comunità sikh in ambito pubblico (poiché gestiscono i gurdwara) e sono essi ad avere spesso le maggiori difficoltà di inserimento sociale, proprio a causa di alcuni particolari del loro costume tradizionale, segnatamente il turbante e il pugnale (kirpan).
Dopo decenni di immigrazione sikh nei Paesi europei sono ormai ben note le problematiche relative al possesso del kirpan, perciò in questa sede ne accenniamo solo brevemente. Il kirpan per gli amritdhari non è un’arma bensì un simbolo religioso, una testimonianza di adesione al Khalsa e dell’impegno a difendere la fede; tuttavia sono frequenti i casi in cui ai sikh durante le perquisizioni negli aereoporti italiani viene sequestrato il kirpan e viene tolto il turbante per verificare che non nasconda armi o altro. Tali sequestri e perquisizioni colpiscono i sikh in ogni sorta di luogo pubblico e costituiscono per essi una grave offesa alla propria libertà e identità religiosa; fortunatamente, a partire dal 2009 il kirpan è stato più volte riconosciuto anche da tribunali italiani come simbolo religioso anziché come arma e di conseguenza i sikh fermati dalla polizia italiana sono stati rilasciati[35]. Quanto al turbante, la Gran Bretagna – ove l’immigrazione sikh è molto più antica che in Italia – ha già accettato il suo uso al posto del casco per i motociclisti, mentre ai sikh arruolati nella polizia britannica è concesso indossare il turbante come parte integrante della divisa.
Nel nostro Paese però tali innovazioni non sono state ancora recepite dalla normativa vigente, né tantomeno dalla società nel suo complesso. Accade perciò che taluni sikh italiani (soprattutto maschi) nella prima fase dell’immigrazione si sentano psicologicamente costretti a rinunciare ai costumi del Khalsa – e dunque in un certo senso ‘abiurino’ la propria fede – per facilitare la propria integrazione nel mondo del lavoro: senza turbante, barba lunga e pugnale, è molto più semplice non essere notati e non suscitare sospetti. Ma passati alcuni anni e consolidata la propria condizione in una rete di relazioni sociali e professionali stabili, questi stessi sikh superano i propri timori e rigettano la propria ‘mimetizzazione’, cioè tornano ad affermare anche all’esterno la propria identità religiosa compiendo un secondo ‘battesimo’ (cioè una seconda cerimonia dell’Amrit pahal) che li porta ad esibire nuovamente i simboli e i costumi del Khalsa. Un atto di riappropriazione dell’identità religiosa che rappresenta altresì l’espressione di un migliore status socio-economico: entrambe le cose sono fonti di prestigio personale e famigliare all’interno della comunità sikh di riferimento nonché fonti di emulazione da parte degli immigrati più giovani, spesso ancora incerti se manifestare o no – sul piano del costume e dei simboli – la propria fede religiosa[36]. A conclusione di quanto sopra esposto, si può solo auspicare che in futuro un maggiore riconoscimento istituzionale e sociale del sikhismo porti i suoi credenti a non dover più nascondere o mimetizzare la propria identità religiosa.
Un’ altra importante problematica relativa al riconoscimento del sikhismo in Italia è quella del matrimonio religioso, che per i sikh è monogamico e indissolubile (è permesso risposarsi solo in caso di vedovanza). La questione del matrimonio sikh (Anand karaj) è antica ed è stata oggetto di aspre polemiche anche in India, dove solo di recente ha trovato soluzione. Tradizionalmente infatti in India il matrimonio sikh non veniva riconosciuto come tale in quanto il sikhismo fu per lungo tempo assimilato all’induismo (poiché storicamente il ‘primo volto’ del sikh panth era per molti aspetti contiguo all’induismo); di conseguenza il matrimonio sikh veniva celebrato secondo i riti hindu. Una prima svolta si ebbe durante il Raj britannico, quando gli inglesi nel 1909 regolamentarono lo Anand karaj con lo Anand marriage act, permettendo ai sikh di celebrarlo con riti propri e riconoscendone la validità. Tuttavia, dopo la conquista dell’indipendenza indiana la questione si ripropose perché la Costituzione della nuova India assimilò de facto il sikhismo (così come il gianismo) all’induismo e nel 1955 il matrimonio sikh tornò, nel nuovo diritto di famiglia, ad essere regolamentato dallo Hindu marriage act[37].
Contro questo stato di cose i sikh indiani hanno condotto per decenni una polemica politico-religiosa ma l’India indipendente e democratica ha accolto le loro richieste – per quanto possa sembrare sorprendente – soltanto nel maggio 2012, quando finalmente la promulgazione di uno specifico Anand marriage act ha consentito ai sikh di non registrare più i loro matrimoni sotto lo Hindu marriage act[38]. Quanto accaduto in India è stato accolto con giubilo dalle comunità sikh in tutto il mondo, e non è difficile prevedere che presto anche le comunità sikh stanziate nei Paesi occidentali (a partire da quelle di più antica emigrazione, in Gran Bretagna e in Canada) avanzeranno una simile richiesta di riconoscimento del proprio matrimonio religioso, l’Anand karaj.
In conclusione, risulta evidente che anche la società italiana dovrà imparare a rapportarsi con i sikh e il sikhismo in una prospettiva interculturale secondo due principi fondamentali: accoglienza (delle persone) e riconoscimento (della loro religione). Tanto più che nel dicembre 2012 lo Stato italiano ha approvato le Intese con l’Unione induista italiana e con l’Unione buddhista italiana[39]. Forse non è troppo lontano il giorno in cui anche il sikhismo potrà ottenere in Italia il proprio riconoscimento.
NOTE BIBLIOGRAFICHE
[1] Da seva o sewa (letteralmente: servizio). Lo spirito di servizio agli altri è un precetto fondamentale nell’ortoprassi sikh, perché servendo l’umanità si serve Dio. Ogni tipo di servizio ha pari dignità, ciò che conta è la sincerità e la devozione di chi lo compie. Il luogo principe per prestare servizio agli altri è il gurdvara (si veda più oltre il paragrafo ‘I gurdvara, i langar e l’accoglienza dell’ ‘altro’). Cfr. in proposito il lemma Sewa in Harjinder Singh Dilgeer, Dictionary of sikh philosophy, Waremme, Sikh university press, 2005, pp. 219-220. Ndr: seguendo gli odierni standard internazionali dei Sikh Studies di carattere sociologico in questo lavoro omettiamo i segni diacritici. Inoltre scriviamo per esteso i nomi degli autori sikh, onde evitare confusioni fra tutti i sikh amritdhari citati i quali, dopo avere compiuto il ‘battesimo’ sikh prescritto dal Khalsa, acquisiscono tutti lo stesso cognome Singh (se maschi) o Kaur (se femmine).
[2] http://www.sikhchannel.tv/images/pa2012brochure.pdf (accesso 15/4/2013)
[3] Fra i ‘classici’ dei maestri dei Sikh studies si vedano: S. Piano, Guru Nanak e il sikhismo, Fossano, Esperienze, 1971; Id. (ed.) Canti religiosi dei sikh, Milano, Bompiani, 2001; Id., La realizzazione spirituale dell’uomo secondo il sikh-panth, in La realizzazione spirituale dell’uomo, Atti del convegno interdisciplinare del dipartimento di medievistica dell’università di Pisa, Milano, Istituto propaganda libraria, 1987, pp. 61-74; Khushwant Singh, A History of the sikhs, Delhi, Oxford University Press, 1977; W. H. McLeod (ed.), Textual sources for the study of sikhism, Manchester, Manchester University Press, 1984; Id., Who is a sikh? The problem of sikh identity, New York, Oxford University Press, 1989; Id., The evolution of the sikh community, Delhi, Oxford University Press, 1996; M. Delahoutre, I sikh, Schio-Città del Vaticano, Interlogos-Liberia Editrice Vaticana, 1995 (Figli di Abramo).
[4] Fra i contributi più aggiornati in questo campo si vedano: K. A. Jacobsen – K. Myrvold (edd.), Sikhs in Europe. Migration, identities and representations, Ashgate, Farnham, 2011; Pashaura Singh (ed.), Sikhism in global context, Delhi, Oxford University Press, 2011. Per quanto attiene specificamente all’immigrazione sikh in Italia: D. Denti – M. Ferrari – F. Perocco (edd.), I Sikh. Storia e immigrazione, Milano, Franco Angeli, 2005 (Politiche migratorie). Per quanto riguarda invece le dottrine e i movimenti sikh, o derivati dal sikhismo, diffusi nel nostro Paese (anche fra convertiti italiani) si veda l’opera del Cesnur: M. Introvigne – P. Zoccatelli (edd.), Le religioni in Italia, Torino, Elledici, 2006, pp. 679-704. Infine, più in generale sulla diaspora sikh nel mondo si veda: Pashaura Singh – N. G. Barrier (edd.), The transmission of sikh heritage in the diaspora, Delhi, Manohar, 1996.
[5] S. D. Muni, La diaspora indiana: una risorsa strategica, «Limes. Rivista italiana di geopolitica», 2009, 6, pp. 123-129.
[6] Cfr. E. Nesbitt, Sikh diversity in the UK: context and evolution, in Jacobsen – Myrvold (edd.), Sikhs in Europe, pp. 225-252.
[7] www.istat.it (accesso 15/4/2013); Caritas Italiana – Fondazione Migrantes (edd.), Dossier statistico immigrazione. 22° rapporto, Roma, 2012; www.caritas.it (accesso 15/4/2013)
[8] Fondazione Leone Moressa (ed.), Rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione. Edizione 2012. Immigrati: una risorsa in tempo di crisi, Bologna, il Mulino, 2012, p.190. Il Rapporto segnala inoltre che nel 2010 (ultimo dato disponibile) il reddito medio annuo dichiarato dai contribuenti indiani in Italia è stato di 11.070 euro (ibid., p. 156). Considerando invece in termini più generali il fenomeno migratorio in Italia, il Rapporto della Fondazione Moressa ricorda che gli stranieri nel nostro Paese contribuiscono per il 12,1% alla creazione del Pil nazionale attraverso il loro lavoro (ibid. p. 145); gli stranieri costituiscono l’8,2% dei contribuenti totali in Italia ma percepiscono il 5,3% degli importi dichiarati (ibid., p. 147).
[9] Cfr. L. Micheletti, Lavoro per gli immigrati indiani nella provincia di Bergamo. Esperienze e riflessioni di una mediatrice culturale, Università degli studi di Milano, Facoltà di scienze politiche e Facoltà di lettere e filosofia, Corso di laurea magistrale in lingue e culture per la comunicazione e la cooperazione internazionale, A.A. 2010-2011, Tesi di laurea inedita.
[10] Cfr. Khuswant Singh, A History, vol. I pp. 187-296, vol. II pp. 3-97.
[11] Sui tragici eventi del 1984, le loro cause e conseguenze per il Panjab e per l’India si veda: M. Restelli, I sikh fra storia e attualità politica, Paese-Treviso, Pagus, 1990; Kanwar Pal Singh Gill, Endgame in Punjab: 1988-93, in Id. – A. Sahni (edd.), Terror and containment. Perspectives on India’s internal security, Delhi, Gyan Publishing House, 2001, pp. 23-84; Fondazione Amnesty International (ed.), India. Rapporto sulle violazioni dei diritti umani nel Punjab, Torino, Sonda, 1992; A. Vaugier-Chatterjee, Les sikhs: entre intégration et séparatisme, in C. Jaffrelot (ed.), L’Inde contemporaine de 1950 à nos jours, Paris, Fayard, 1996, pp. 235-247; L. Morgante, Panjab aaj kal: fra storia, attualità e problematiche, Università degli studi di Milano, Interfacoltà di scienze politiche lettere e filosofia, Corso di laurea in lingue e culture per la comunicazione e la cooperazione internazionale, A.A. 2010-2011, Tesi di laurea inedita. Per il punto di vista storico-politico dei sikh anti-indiani si vedano: Sangat Singh, The sikhs in history, Amritsar, Singh Brothers, 2010, pp. 341-584 (e sulla conseguente diaspora sikh nel mondo: ibid., pp. 586-636); Inderjit Singh Jaijee, Politics of genocide. Punjab 1984-1998, Delhi, Ajanta Books International, 1999.
[12] Sul ruolo del gurdvara e la dimensione collettiva dell’identità religiosa in una comunità sikh italiana si veda S. M. Sai, Dal Panjab all’Italia. Percorsi di territorializzazione degli indiani sikh nel reggiano, «Molimo. Quaderni di antropologia culturale ed etnomusicologia. Facoltà di lettere e filosofia dell’Università degli studi di Milano», 2010, 5, pp. 201 – 225. Più in generale sui gurdvara in India si veda: Surinder Singh Johar, Holy sikhs shrines, Delhi, M D Publications, 1998.
[13] Cfr. Piano (ed.), Canti religiosi, pp. 233-259.
[14] Sul significato dello spirito di servizio agli altri (seva) rimandiamo a quanto detto nella nota 1 al presente lavoro. Quanto alla dimensione spirituale e sociale dei langar nel mondo sikh cfr. Parkash Singh, Community Kitchen of the Sikhs, Amritsar, Singh Brothers, 1994. Riguardo invece alle tradizioni alimentari del Panjab: Y. Sharma, The food trail of Punjab, Delhi, Nas Publication, 2010.
[15] Sulla figura e le opere di questo sufi si veda Jaspinder Singh Grover – Sukhmani Kaur Grover, Sheikh Farid. Life, hymns and teachings, Amritsar, Jawahar Publishers, s.d.
[16] Riguardo alla fondazione del gurdvara di Pessina Cremonese si vedano le dichiarazioni rilasciate nel 2011 da don Mario Aldighieri, responsabile del Segretariato per lo studio delle nuove forme di religiosità della diocesi di Cremona e delegato alle relazioni per il Tavolo interreligioso, e da don Claudio Rasoli, direttore dell’Ufficio comunicazioni sociali della diocesi di Cremona: M. Restelli, Sikh. Indiani padani, «L’Avvenire-Agorà», 25/9/2011, p.2. Riguardo al gurdvara di Novellara si vedano invece le dichiarazioni del parroco del paese: Sai, Dal Panjab all’Italia, pp. 208-209.
[17] Cfr. Avtar Singh Rana, Il sikhismo. Introduzione alla religione dei sikh, Flero (Brescia), Parbandhak Commitee Gurdwara Singh Sabha, 2006. Per quanto riguarda i siti internet prodotti da sikh italiani i più significativi sono www.sikhiesikh.org e www.sikhismo.com (accesso 15/4/2013).
[18] Sulle condizioni professionali e socioeconomiche dei sikh immigrati in Emilia Romagna, in Lazio e in Veneto nonché sulle rappresentazioni dei sikh nei media italiani si veda: B. Bertolani – F. Ferraris – F. Perocco, Mirror games: a fresco of sikh settlements among italian local societies, in Jacobsen – Myrvold (edd.), Sikhs in Europe, pp. 133-161. Sull’inapplicabilità della categoria di ‘specializzazione etnica’ si veda anche S. Tomasini, I sikh in Friuli e in Veneto, in Denti – Ferrari – Perocco (edd.), I sikh, pp. 177-184. Riguardo invece alla condizione abitativa degli immigrati in Italia si veda Fondazione Leone Moressa (ed.), Rapporto annuale 2012, pp. 196-200.
[19] Cfr. S. Sai, Riconfigurazioni familiari e identità di genere tra i migranti sikh a Reggio Emilia, in A. Colombo – G. Sciortino (edd.), Stranieri in Italia. Trent’anni dopo, Bologna, il Mulino, 2008, pp. 117-146; M. J. Compiani – F. Galloni, I sikh in Lombardia, in Denti – Ferrari – Perocco (edd.), I sikh, pp. 143-162.
[20] Cfr. V. A. Dusenbery – D. S. Tatla, Diaspora philantropy. The case of sikhs giving back to Punjab, in Pashaura Singh (ed.), Sikhism in global context, pp. 146-164.
[21] Un esempio di questa libellistica è: M. K. Gill (ed.), Eminent sikh women, Delhi, Himala Publishers, 1996.
[22] Sulla ridefinizione identitaria delle donne sikh in Gran Bretagna si vedano: Satwant Kaur Rait, Sikh women in England. Their religious and cultural beliefs and social practices, Stoke on Trent, Trentham Books, 2005; A. Farano, New hybrid identities in british society: the reinvention and translation of the sikh tradition within Great Britain, Università degli studi di Milano, Facoltà di scienze politiche e Facoltà di lettere e filosofia, Corso di laurea in mediazione linguistica e culturale, A.A. 2008/2009, Tesi di laurea inedita.
[23] Sul ruolo centrale delle donne sikh nelle reti migratorie e sui nuovi casi in cui la possibilità di emigrare sostituisce il pagamento della dote matrimoniale cfr. Sai, Riconfigurazioni familiari, pp. 127-139.
[24] Cfr. Compiani – Galloni, I sikh in Lombardia, pp. 156-158.
[25] Cfr. Micheletti, Lavoro per gli immigrati indiani, Tesi di laurea inedita. Sul Fondo Nasko si vedano le disposizioni nel sito della Regione Lombardia: www.famiglia.regione.lombardia.it/cs/Satellite?c=Redazionale_P&childpagename=DG_Famiglia%2FDetail&cid=1213447576096&pagename=DG_FAMWrapper (accesso 15/4/2013).
[26] Cfr. B. Bertolani, I sikh in Emilia: fra specializzazione del lavoro e reti di relazioni, in Denti – Ferrari – Perocco (edd.), I sikh, pp. 163-177. In particolare sulla ‘parentela sociale’, ibid., pp. 170–174.
[27] Micheletti, Lavoro per gli immigrati indiani, Tesi di laurea inedita.
[28] Cfr. Fondazione Leone Moressa (ed.), Rapporto annuale 2012, pp. 57-58.
[29] Cfr. Rotary International (ed.), Vivere nella scuola italiana. Breve guida all’integrazione per i genitori degli alunni giunti in Italia, Rotary International con il patrocinio del Ministero dell’istruzione e dell’Ufficio scolastico della Lombardia, 2010. L’opuscolo presenta la struttura fondamentale della scuola italiana in lingue extracomunitarie quali la panjabi, l’urdu, il cinese, l’arabo e il russo, oltre che in lingue europee come l’inglese e il francese.
[30] Cfr. P. Perticari – Progetto sperimentale ‘Moltitudini’, La scuola che non c’è. Riflessioni e esperienze per un insegnamento aperto, inclusivo e universalista. Il caso del 2° Istituto Comprensivo di Brescia, Roma, Armando, 2008.
[31] Su questi temi si veda B. Salvarani, L’educazione interreligiosa in Italia oltre il muro di vetro, «Cem Mondialità. Mensile dell’educazione interculturale», novembre 2010, pp. 23-28.
[32] Cfr. www.bibliotecaalpi.it/index.php/it/country-focus/286-benvenuti-in-india (accesso 15/04/2013).
[33] Cfr. M. Restelli, Il sikhismo nell’India di oggi. Fra ‘ortodossia’ e pluralismo, in Denti-Ferrari-Perocco, I sikh, pp. 89-113. In materia si vedano ovviamente anche gli autorevoli studi di W. H. McLeod citati qui nella nota 3. Vale la pena ricordare che le analisi di McLeod sull’identità plurale del mondo sikh sono state duramente contestate dagli autori sikh legati a una visione integralista del sikhismo e del Khalsa, quali lo storico Sangat Singh, citato nella nota 11 del presente lavoro.
[34] Oltre ai già citati studi di W. H. McLeod si veda M. Restelli, I due volti del sikh panth di fronte al sorgere del movimento nazionale indiano. Un’ipotesi interpretativa, «Culture. Annali dell’Istituto di lingue della facoltà di scienze politiche dell’università degli studi di Milano», 10, 1997, pp. 303-311.
[35] Sentenze in tal senso sono state emesse, nel 2009, dal Tribunale di Cremona e dal Tribunale di Vicenza, non a caso due zone dove la cultura sikh è maggiormente conosciuta a causa della forte presenza di immigrati panjabi.
[36] Cfr. Sai, Riconfigurazioni familiari, pp. 139-143, dove si citano come esempi di mimetizzazione i casi di ragazzini sikh che a scuola non indossano il turbante per non essere motteggiati come ‘terroristi musulmani’ dai compagni di classe.
[37] Sul significato e la liturgia del matrimonio sikh (Anand karaj) si veda R. C. Dogra – U. Dogra, The sikh world. An encyclopedic survey of sikh religion and culture, Delhi, Ubspd, 2003, pp. 23-25; per l’ Anand marriage act emesso dai britannici nel 1909 cfr. www.vakilbabu.com/laws/Acts/AMAct/AMAct.htm (accesso 15/04/2013); sull’applicabilità dello Hindu marriage act del 1955 anche al matrimonio sikh cfr. Kusum, Family law lectures. Family law I, Gurgaon, LexisNexis Butterworths Wadhwa, 2011, p. 8; infine sulle pratiche matrimoniali nella tradizione hindu cfr. L. Dumont, Homo hierarchicus. Il sistema delle caste e le sue implicazioni, Milano, Adelphi, 1991, pp. 220-246.
[38] Cfr. questo articolo pubblicato dall’Indian express: www.indianexpress.com/news/sikhs-can-register-marriages-under-anand-marriage-act-now/952647/ (accesso 15/04/2013).
[39] Cfr. www.hinduism.it/; www.buddhismo.it/ (accesso 15/04/2013).