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Immigrazione e Criminalità, intervista al prof. Merico: “Migranti più propensi a delinquere? No, è un mito da sfatare”

Creato il 29 maggio 2015 da Nerocronaca

LECCE – Il fenomeno dell’immigrazione ha origini antichissime e dura da millenni. Nel corso dei secoli si è sviluppato il concetto di pregiudizio, che in determinati contesti storici ha generato l’odio razziale. Ad oggi, l’Italia è impegnata ad affrontare il flusso dei migranti e la problematica dei continui sbarchi sulle coste del Mediterraneo. Tra le migliaia di persone che arrivano nel Bel paese quasi quotidianamente, vi sono sia profughi di guerra, che immigrati, i quali raggiungono le coste italiane nella speranza di migliorare la loro qualità di vita.

Il pregiudizio di molti italiani nei confronti dei migranti sembra essere alimentato da una politica non decisiva e dall’influenza dei mass media. Sono numerosi coloro che associano la criminalità agli immigrati e ai profughi, anche per via del fatto che, nel diffondere le notizie relative ai reati, viene ormai di prassi specificata l’etnia delle persone, se esse sono straniere.

Nero Cronaca ha interpellato il professore dei Processi Migratori Franco Merico, dell’Università dei Salesiani di Lecce, per comprendere i fenomeni migratori e se vi è un nesso con la criminalità.

INTERVISTA AL PROFESSOR FRANCO MERICO 

Professor Merico, cos’è il pregiudizio?
«Ognuno di noi ha difficoltà a relazionarsi con persone diverse. Proprio perché ciò è difficile, è un pregiudizio».

Quando il pregiudizio diviene razzismo?
«Il pregiudizio diventa razzismo in un secondo momento. Non bisogna confondere i due fenomeni. Si parla di razzismo quando dietro di esso vi è un’ organizzazione e si focalizzano delle leggi razziali, come quelle che furono introdotte nella Germania nazista contro gli ebrei».

Criminologicamente parlando, secondo i testi di Tim Newburn, le minoranze etniche sono più propense ad entrare nelle gang. Questo accade anche in Italia?
«Non è che sono più propense, una minoranza etnica vivendo in un luogo nuovo, cerca protezione, la minoranza si lega alla minoranza stessa e lo straniero viene attratto da questo circuito, che è dovuto alla emarginazione. Non c’é tendenza. Gli stranieri come gli italiani hanno la stessa probabilità percentuale di delinquere, dal piccolo furto al grande delitto. Teniamo conto che per l’ Italia la criminalità è legata all’età adulta, non bambini o anziani. Chi emigra è adulto, quindi se la percentuale di delinquenza è maggiore (rispetto alla popolazione locale, n.d.r.), questo è dovuto a ciò. A novant’anni è difficile fare rapine in banca. É un fatto naturale».

I media tendono a sottolineare l’etnia delle persone, se esse sono straniere e commettono un crimine. Dal punto di vista sociologico e criminologo, secondo lei, questa abitudine influisce sulla discriminazione?
«Certamente. I media hanno un’influenza fondamentale, perché dalla loro forma possono scaturire degli atteggiamenti. Spesso i media, anche nel riportare un caso di delitto, si pongono diversamente. Ad esempio, se avviene un omicidio, o un incidente stradale, ed il colpevole è italiano, questo dato difficilmente viene precisato. Diversamente, se a commettere il fatto è stato un africano, piuttosto che un rumeno, l’etnia viene spesso indicata».

Un immigrato è più propenso a commettere un crimine per ragione economiche o culturali? Oppure si tratta di un mito da sfatare?
«No, no, è un mito da sfatare. L’immigrato classico non è propenso ad entrare nel circuito della devianza o criminalità, l’essere preda dei gruppi criminali deriva dai sentimenti del bisogno. Se, per esempio, in un quartiere di una città italiana vi sono numerosi disoccupati, il fenomeno può colpire anche un italiano, così come avviene per un immigrato che ha bisogni economici».

Cosa può fare una società per integrare gli immigrati?
«La società deve sempre avere un unico programma di politica, offrire diritti e pretendere doveri. Se noi non offriamo diritti, non possiamo pretendete doveri. Diamo ai figli degli stranieri nati in Italia la cittadinanza al raggiungimento dei loro 18 anni, e pretendiamo da queste persone gli stessi doveri degli italiani. La stragrande maggioranza degli stranieri è contenta e noi risolviamo il problema ».

Cosa manca nelle leggi del italiane per creare questa condizione?
«In Italia non c’è una vera politica migratoria, piuttosto la questione viene affrontata a livello comunale o regionale, ma non c’è un programma complessivo. La legge definisce gli immigrati in Italia come provvisori, ma dovrebbe vederli in definitiva».

Una domanda che si pongono in molti: come può, un Paese come l’Italia, farsi carico delle migliaia di migranti che sbarcano quotidianamente? Cosa dovrebbe fare l’Unione Europea? 
«Intanto in Italia non riusciamo mai a distinguere l’immigrante che lavora dal profugo di una guerra. Chi sbarca a Lampedusa è reduce di guerra. Queste persone vanno accolte provvisoriamente e in tutta Europa, non solo in Italia. Tra l’altro, se la politica fosse migliore, potrebbero diventare migranti di lavoro. La politica deve però propendere verso il rimpatrio, affinché in quegli Stati si superano i conflitti che ci sono».

Chi è socialmente escluso ha più probabilità di commettere un crimine. Si trova d’accordo con questo concetto?
«Si, è un concetto elaborato dalla scuola di Chicago negli anni Trenta in America. La devianza e la criminalità, dicevano i sociologi, nasce nei quartieri in cui ci sono problematiche di carattere sociale ed economico».

Un quartiere con alto tasso di povertà e criminalità può anche essere abitato e frequentato da soli italiani. Perché suscita meno paura di un quartiere abitato e frequentato interamente da stranieri, nonostante accadano gli stessi medesimi fenomeni?
«Finché non c’è conoscenza, o rapporto sociale, l’individuo “ha paura dell’altro”, poi appena lo conosce capisce che anche lo straniero può essere buono, o delinquente. La paura crea diffidenza, la diffidenza genera discriminazione: è una catena».

Spesso viene fatto il paragone tra migranti italiani negli USA e gli immigrati che giungono in Italia. Ci sono differenze tra questi due fenomeni migratori, a parte il contesto storico?
«Le differenze ci sono e sono legate al contesto storico, noi in America siamo stati discriminati e abbiamo portato criminalità organizzata in maniera superiore, ma si parla di settanta, ottanta anni fa. Oggi gli Italiani in America si sentono più americani che italiani, quindi la politica migratoria di lungo periodo porterà, nei prossimi vent’anni, un miglioramento anche in Italia, proprio come accadde in America».

Quali sono le motivazioni che spingono maggiormente un nucleo familiare ad immigrare?
«Rimane fondamentale la condizione economica. Partono per trovare un lavoro o un miglioramento delle condizioni di vita. I giovani che hanno studiato cercano un’affermazione della propria personalità, anche perché oggi, con l’inglese e Internet, sono più cosmopoliti di un italiano cinquant’anni fa, che non conosceva l’inglese. Ciò vale per tutto il mondo. Il processo migratorio con l’inglese e internet aumenterà, non è più come cento anni fa, la situazione psicologica è cambiata».


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