Traduzione a cura della rivista “Internazionale“.
Articolo originale di John Naughton, apparso su “The Guardian“
Magazzino di Amazon
Apple, Amazon, Facebook e Google hanno profitti da capogiro e si vantano di aver creato nuovi posti di lavoro. Ma spesso si tratta di lavori sottopagati e alienanti
Vi serve un corso accelerato di capitalismo digitale? Facile, vi basta assimilare quattro concetti: margini di profitto, volume, disuguaglianza e impiego. Se volete qualche dettaglio in più, aggiungete quattro aggettivi: esiguo, grande, enorme, misero.
Cominciamo con i margini di profitto. Un tempo esisteva una grande azienda di nome Kodak. Dominava il suo settore, la fotografia basata sui processi chimici, e aveva margini di profitto enormi, che in alcuni casi raggiungevano il 70 per cento. Un giorno, però, nelle profondità dei suoi laboratori di ricerca e sviluppo, alcuni dipendenti hanno inventato la fotografia digitale. Quando hanno presentato l’idea al loro capo, la conversazione dev’essere andata più o meno così. Capo: “Quali sarebbero i margini di profitto?”. Ricercatori: “Be’, è tecnologia digitale, quindi al massimo il 5 per cento”. Capo: “Grazie, potete andare”.
Solo che alla fine ad andarsene è stata la Kodak. I grandi margini di profitto di una tecnologia obsoleta avevano accecato i dirigenti della società. I ricercatori di Kodak, comunque, avevano ragione. Tutto ciò che riguarda computer e produzione di massa è destinato a invecchiare rapidamente. Il mio primo telefono cellulare (comprato negli anni ottanta) costava quasi mille sterline. Di recente ne ho visto uno in vendita da Ta sco a 9,95 sterline (è vero, la Apple ha ampi margini di profitto sull’hardware, ma solo perché è sempre in vantaggio sulla concorrenza, e non durerà in eterno).
Ma passiamo al volume, che su internet raggiunge livelli astronomici. Ecco qualche esempio: ogni minuto su YouTube vengono caricate 72 ore di video; su Facebook ci sono più di cento miliardi di fotografie; durante le feste di Natale il sito inglese di Amazon ha spedito un camion pieno di pacchi ogni tre minuti, e dall’iTunes Store di Apple sono state scaricate più di 40 miliardi di app.
Il margine di profitto sarà anche esiguo, ma quando lo moltiplichi per questi numeri ottieni introiti da capogiro.
Robot in divisa arancione
Questi grandi profitti, però, sono distribuiti in modo tutt’altro che equo. Ad arricchirsi sono soprattutto i fondatori e gli azionisti di Apple, Amazon, Google, Facebook e altri colossi del settore. Ovviamente chi svolge dei compiti cruciali – programmatori, sviluppatori e manager – può contare su salari alti. Ma la maggior parte dei suoi colleghi lavora in condizioni decisamente peggiori.
Prendete la Apple, per esempio. L’azienda si vanta del numero di posti di lavoro che crea “direttamente o indirettamente”, ma in realtà circa due terzi dei 50mila dipendenti dell’azienda negli Stati Uniti sono semplici commessi degli Apple Store. Nel 2012 la maggioranza di loro ha guadagnato appena 25mila dollari, quando il salario me dio negli Stati Uniti è di 38.337 dollari (dati del 2010). Infine c’è la questione dell’occupazione, un aspetto che le grandi imprese del settore tecnologico sembrano avere particolarmente a cuore. Facebook, per esempio, paga profumatamente i suoi consulenti per produrre dati assurdi sul numero di posti di lavoro che creerebbe. Nel 2011 la forza lavoro mondiale dell’azienda ammontava a tremila dipendenti, ma secondo uno di questi “rapporti” quell’anno Facebook aveva contribuito indirettamente a creare 232mila posti di lavoro in Europa e a generare introiti per 32 miliardi di dollari. Oggi la Apple, bersagliata dalle critiche per la mole di lavoro appaltato alla Foxconn in Cina, sostiene di avere “creato o sostenuto” quasi 600mila posti di lavoro negli Stati Uniti.
La domanda fondamentale a cui le aziende evitano accuratamente di rispondere è: di che genere di posti di lavoro stiamo parlando? Sarah O’Connor, corrispondente economico del Financial Times, ha scritto un articolo interessante su ciò che ha visto nel gigantesco centro di distribuzione di Amazon a Rugeley, nello Stafordshire.
Nello stabilimento lavorano centinaia di persone in divisa arancione. Spingono carrelli in uno spazio grande quanto nove campi da calcio, con lo sguardo fisso sui palmari che indicano dove andare e quale pacco prendere. Vanno di fretta, perché “gli strumenti che usano controllano anche il loro livello di produttività in tempo reale”, e percorrono tra i dieci e i venti chilometri al giorno. “Sono come robot, ma in forma umana”, ha spiegato un manager a O’Connor. “Può chiamarla automazione umana, se vuole”. Certo, è comunque un lavoro. Sempre che prima o poi non siano sostituiti dai robot. as
Fonte: Internazionale
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