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C’è un altro luogo che recentemente il cinema ha fatto conoscere a noi tutti per il suo desolante squallore: è l’Austria. Diversa la situazione rispetto all’Europa dell’est, senza dubbio, eppure un signore distinto come Haneke ci ha mostrato il lato peggiore dei suoi connazionali, una vera ombra che si nasconde dietro la limpida facciata della cultura austriaca, e lo stesso hanno fatto Jessica Hausner, Ulrich Seidl, e chissà quant’altri che nemmeno conosco. I nostri vicini di sopra sembrano avere parecchi scheletri nell’armadio – noi non siamo certo dei santi, ma ultimamente nessuna mdp è stata abbastanza brava nel ricordarcelo –, e il contrasto che si crea con la loro vita pulita e precisa è netto, quasi sconvolge. Alzi la mano chi non è rimasto scioccato dalla storia di Joseph Fritzl, il demone di Amstetten, dalla casetta col giardino e tanti piccoli bambini a zampettarci sopra, non curandosi di esserne padre e nonno allo stesso tempo. L’orrore raccontato da Seidl non è così abominevole (o forse sì?), piuttosto scivola nella quotidianità delle cose riprendendo, con stile e gusto personalissimo, l’inarrestabile deriva umanistica. Ma ciò che Seidl dice è un sussurro, eco lontana, non c’è esaltazione alcuna nel mostrare delle ragazze che lavorano in un peep-show telematico o un vecchio leone tatuato che cerca di sfogare le sue fantasie su una giovane zoccoletta, non c’è irruenza nel voler far capire che il futuro dei due protagonisti è nero come la schermata finale, no cazzo, il regista ci butta lì tutta l’ignobile disumanità che li circonda come se niente fosse, lo aveva fatto anche con Animal Love (1995) e Canicola (2001), risultando forse un po’ indigesto, e lo rifà qui, ma qui, affina ulteriormente la tragica ironia che percuote ogni suo film, satira pungente, all’arsenico, che fa sembrare buffe le situazioni più strambe, le quali però spogliate della propria veste comica sono un discreto pugno nello stomaco.
È l’ineluttabilità delle figure umane che fanno da contorno a stravincere in Import/Export.
Non ci si può opporre all’umiliazione delle botte che Pauli subisce nel garage e che gli faranno perdere il lavoro, e parimenti non si può fare niente contro il bimbo tiranno che fa cacciare Olga come domestica. Proseguendo nel film si incontreranno molti altri figli di buona donna che attraverso la loro bassezza risucchieranno i due giovani nel loro fango, sono lo specchio di una realtà, la nostra, e del marciume che la permea. Questo deterioramento si esplica soprattutto in due set distinti, resi ottimamente dall’obiettivo di Seidl. Il primo è l’ospedale, ultimo avamposto della vita dove anziani decrepiti in preda ai propri fantasmi contano gli ultimi respiri, qui il cuore si fa piccolo piccolo nel vedere l’impotenza della vecchiaia di fronte alla malignità della frustrata infermiera; il secondo è la profonda periferia Ucraina (ancora l’est, che vi avevo detto) con i suoi palazzi fatiscenti, fuochi dentro bidoni arrugginiti, sciami di bambini imbacuccati. Ivi non accade nulla di particolare, tuttavia l’atmosfera degradante che si respira è annichilente.
Import/Export è un film sulle macerie che si nascondono dietro i sepolcri imbiancati della modernità, su Joseph Fritzl, sulle maschere che la società austriaca, ma anche ucraina e perché no di tutto il resto del mondo, indossa per non vedere l’inciviltà che la circonda.
È una gelida testimonianza che viene trasmessa con rassegnazione, e pietà, per gli esseri umani di un teatrino noioso in cui trascinano la propria vita: dal principio alla fine. Difatti il film si apre con un neonato piangente, e finisce nella corsia di un reparto dove prima che cali il buio eterno una vecchia donna pronuncia nel silenzio assordante una semplice parola: “tod”. Morte.
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