N.B. Questa recensione aderisce all’iniziativa Impossible Movie Project lanciata da Minuetto Express, per saperne di più andate a leggere il bando!
Aryan Papers è il tredicesimo film (di quattordici) nella produzione di Stanley Kubrick, ma è anche un film che ha rischiato di non vedere mai la luce. Il regista, infatti, era pronto ad abbandonare la produzione del film a poche settimane dall’inizio delle riprese, programmato per il 7 Febbraio del 1994. Per convincere Kubrick a realizzare il progetto fu decisivo l’intervento di Steven Spielberg che, per una strana combinazione, era anche una delle principali cause della possibile rinuncia. Fu infatti l’uscita nelle sale di Schindler’s List a rafforzare i dubbi di Kubrick sulla possibilità di realizzare un film sull’olocausto. Da un lato si ripeteva quanto accaduto pochi anni prima con Full Metal Jacket, quando il film fu anticipato dall’uscita di Platoon che ne compromise almeno in parte il successo al botteghino; dall’altra lo scetticismo di Kubrick che, pur apprezzando il lavoro dell’amico Spielberg, aveva commentato con sottile ironia l’uscita di Schindler’s List: “Era una questione di successo, no? Nell’Olocausto sono stati uccisi sei milioni di persone. In Schindler’s List sono circa seicento quelli che si salvano”.
Per nostra fortuna l’intervento di Spielberg riuscì a convincere Kubrick e le riprese ebbero inizio, come programmato, nel Febbraio del 1994 tra le location di Brno e Bratislava. Chi conosce la carriera del Maestro noterà un’altra particolarità: il film non fu girato in Inghilterra, ma Kubrick fu costretto a spostarsi (dopo grandi perplessità). Proprio per questo motivo le riprese furono effettuate a ritmi serratissimi per non dover restare lontano da casa nemmeno un giorno di troppo e il film ebbe una gestazione insolitamente breve.
Mettendo da parte l’aneddotica, passiamo a parlare del film: la sceneggiatura è un adattamento del romanzo Wartime Lies di Louis Begley. La storia narra le disavventure di una coppia di ebrei polacchi: il giovane Maciek (Joseph Mazzello) e la zia Tania (Johanna ter Steege), costretti alla fuga per evitare la cattura da parte dei nazisti e condannati a una vita di menzogne per nascondere la loro vera identità. L’adattamento è stato curato da Kubrick in persona, che in una serie di successive stesure risolve a modo suo il problema di un testo narrato in prima persona da un Maciek ormai adulto. In una continua alternanza di punti di vista le vicende vengono presentate ora dai racconti della zia Tania, ora dal punto di vista del piccolo Maciek, sicuramente inficiato dalla sua propensione a mentire. Vedendo il film con il senno di poi è impossibile non tracciare una linea di congiunzione con Eyes Wide Shut, dove il tema del sogno e della percezione del reale viene sviscerato con impareggiabile maestria.
Come spesso accade per le pellicole di Kubrick, Aryan Papers ha generato e continua a generare non pochi grattacapi in chi si aspetta una trama lineare, autoconclusiva e con uno svolgimento chiaro. Sono pronto a scommettere che molti si aggirano per la rete googolando a ripetizione “Aryan Papers spiegazione”. Mi dispiace, ma una spiegazione univoca di quella misteriosa ultima scena nel bosco non la troverete certo qui, perché per citare le parole del Maestro in una celebre intervista su 2001:
“How much would we appreciate La Gioconda today if Leonardo had written at the bottom of the canvas: “This lady is smiling slightly because she has rotten teeth” — or “because she’s hiding a secret from her lover.” It would shut off the viewer’s appreciation and shackle him to a “reality” other than his own.”
Trovate la vostra realtà, dunque, e godetevi la visione di questo film.