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Imposta patrimoniale, bella e impossibile

Creato il 06 settembre 2012 da Tabulerase

Imposta patrimoniale, bella e impossibileMolti italiani chiedono a gran voce l’applicazione di un’imposta sui patrimoni, che il governo si ostina a non inserire nella sua agenda. Sul tema siamo invasi da una pletora di opinioni non sempre oggettiva. Anche nei blog in rete si assiste a interminabili discussioni ammantate di tecnicismi fiscali, ma tutte velate da ideologismi che non restituiscono sufficiente chiarezza sull’argomento. Non parliamo, poi, dell’ideologismo accademico che vede tutti gli economisti contrapporsi, sempre e comunque, fra due fronti, “liberisti” e “keynesiani”, riducendo a una partita di calcetto tra due fazioni il dibattito sui temi economici.

Eppure  questa imposta sembrerebbe, ad una prima valutazione, una manovra equa e necessaria, specialmente in tempi di debito pubblico gigantesco. E allora da dove viene questa ritrosia del governo a varare un’imposta patrimoniale? Cerchiamo di capire innanzitutto di cosa si tratta e quali effetti provoca, tenendo conto che già nel Paese abbiamo avuto esperienze al riguardo.

Nel 1992, senza ascoltare i consigli della Banca d`Italia, si impose nottetempo un prelievo straordinario del sei per mille sui depositi bancari. Al governo, come noto, c`era Amato. Il gettito fu sicuro e cospicuo, ma rappresentò un clamoroso tradimento della fiducia che i cittadini risparmiatori ponevano nelle banche e nello Stato. Riproporre qualcosa di analogo oggi, con la crisi finanziaria che ci opprime e con un livello di credibilità delle banche al minimo storico, sarebbe devastante. Le  imposizione una tantum, con i mercati globalizzati, vanno fatte di sorpresa, quasi di rapina, altrimenti i capitali da tassare se ne vanno e, buona notte, ce la si prende solo con la casa, che l`80 per cento delle famiglie italiane possiede in proprietà e che spesso rappresenta il bene esclusivo di una vita di lavoro e di risparmio. Ci troveremmo di fronte ad una evidente ingiustizia. Ma, si dice, basterebbe limitare la tassazione alle grandi fortune. Guardando dentro la stratificazione dei patrimoni del Paese, notiamo però che chi è veramente ricco detiene le proprie attività finanziarie in holding, family offices, aziende di famiglia. Per colpirle, bisognerebbe mettere una patrimoniale su tutte le società di capitali e questo sarebbe insensato. Se poi la società fosse all’estero sarebbe addirittura impossibile. Chi aveva esportato capitali li ha fatti rientrare con lo scudo attraverso l’ intestazione fiduciaria dei conti esteri, che, rimanendo fuori, possono svanire nuovamente, senza che il fisco possa farci niente. Alla fine, la patrimoniale graverebbe prevalentemente sui risparmi del ceto medio, depositati presso gli intermediari.

So di rischiare l’impopolarità a mettere in dubbio l’applicazione di una patrimoniale, tenuto conto che anche Luigi Einaudi fu un forte sostenitore della stessa,  a cui attribuiva poteri pressocché miracolosi: sosteneva infatti che sarebbe servita a mutare a fondo la psicologia del contribuente.  Ma la storia  ha certificato che la passione dei contribuenti italiani per l’evasione è inaffondabile.

Vediamo di procedere con metodo analitico nell’affrontare la questione. Un’imposta patrimoniale si  applica su uno  stock di ricchezza anziché sul flusso di ricchezza rappresentato dal reddito. Il che vuol dire che si devono tassare immobili (terreni, abitazioni, uffici, negozi, stabilimenti produttivi), valori mobiliari (depositi bancari, titoli pubblici, obbligazioni, azioni), beni mobili registrati (auto, barche, aeromobili), beni mobili di valore (preziosi, arredi, quadri, altre opere d’arte), tenendo conto, per equità, anche dei debiti, che rappresentano ricchezza di segno negativo. Questi elementi patrimoniali possono far capo sia a persone fisiche che a persone giuridiche. Però è da escludere che l’imposta patrimoniale possa applicarsi  a tutti  i cespiti e a qualunque soggetto appartengano. Da escludere, come già detto, sono le imprese e il loro patrimonio netto, trattandosi di patrimoni funzionali alle attività produttive. Questo significa tralasciare  le persone giuridiche e limitarsi al patrimonio delle persone fisiche, rischiando però di esentare anche i patrimoni privati che sono detenuti in forma societaria, escludendo così dall’imposta proprio la parte più ricca della popolazione, quella che può permettersi la costituzione di società per detenere la sua ricchezza e magari utilizza scatole cinesi con la capofila in paradisi fiscali.

Ma anche i beni mobili non registrati sono difficilmente assoggettabili, mentre le abitazioni principali, come anticipato, non sembra  opportuno assoggettarle, perché già ampiamente tassate e perché, rappresentando un bene primario, si inciderebbe due volte sul frutto del lavoro e del risparmio. Qui emerge i il problema della base imponibile: quale valore utilizziamo per tassare gli immobili?  Quello catastale, che è datato, irrealistico e disomogeneo tra immobili edificati in epoca diverse? Oppure il valore di mercato che risente dei cicli economici e, in caso di quotazioni lievitate per boom immobiliari, non restituisce alcun vantaggio al proprietario che non intende vendere? Le complicazioni nel percorrere la via della patrimoniale, come si può vedere, stanno crescendo. C’è ad esempio anche il problema del suo pagamento.  Non potendola pagare in natura (es. con un pezzo di immobile), è richiesta liquidità da parte del contribuente. Se non se ne dispone in misura sufficiente, come è probabile, occorre vendere parte del patrimonio di natura finanziaria, posto che se ne abbia, con il rischio di deprezzare il suo valore sulla spinta dei picchi di offerta. Ma il rischio più grave che incombe riguarda i cittadini e le famiglie che non dispongono di liquidità  e che sarebbero costretti a  indebitarsi per pagare l’imposta.

Tutto questo ci induce alla prudenza sulla sostenibilità della patrimoniale. Qualcuno potrebbe  obiettare che, pur imperfetta e un po’ iniqua, sarebbe comunque necessaria per tranquillizzare i mercati e riportare gli interessi sul debito a livelli accettabili.  Sarebbe importante insomma, senza andare troppo per il sottile, mettere in campo tutta l’artiglieria per ridurre lo spread. Ma la già citata  manovra Amato del 1992 e l’introduzione dell’ISI (imposta straordinaria sugli immobili) del 4 per mille – poi  diventata ICI, visto che straordinaria non lo era più – non salvarono l’Italia dalla speculazione finanziaria che condusse all’espulsione della nostra moneta dallo Sme solo due mesi dopo. Lo spread rispetto ai Bund tedeschi salì notevolmente nei giorni immediatamente successivi alla manovra, da poco più di 500 punti base a quasi 600, e nei mesi successivi arrivò sino a quasi 800. La ragione di  questa disfatta sta nella valutazione negativa dei mercati finanziari, portati a ritenere che l’adozione di una patrimoniale rappresenti una sorta di confessione che non si è in grado di tener sotto controllo la finanza pubblica con strumenti ordinari. Superfluo ricordare che l’aumento dello spread bruciò in maggiori oneri per interessi un multiplo del gettito dei provvedimenti ricordati. Le tasse straordinarie pagate dagli italiani con la manovra Amato finirono rapidamente nelle tasche degli speculatori internazionali e di esse al bilancio pubblico non rimase neppure una lira.Non è la consistenza del debito pubblico il problema principale, bensì il fatto che esso continui a crescere nel tempo più rapidamente del Pil. Il problema principale della finanza pubblica italiana si chiama mancata crescita. Per risolverlo non servono tasse patrimoniali, ma provvedimenti estesi di liberalizzazione.

Trovandoci tuttavia in un periodo di stagnazione economica, se non di decrescita del Pil, è imprescindibile bloccare la crescita del debito, intervenendo urgentemente e con coraggio su problemi incancreniti come quello dell’eccesso (e inefficienza) della spesa pubblica e della massa enorme di evasione fiscale.


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