Ho un problema.
C’è chi affermerà che ne ho più d’uno, c’è anche chi salirà in improbabili cattedre di psicologia applicata per dimostrarmi l’esistenza di tali problemi, ma purtroppo a me fregancazzo e quindi resto sul singolare maschile: ho un problema e si chiama David Bowie.
La mia relazione con l’Esile Duca Bianco che lancia dardi negli occhi degli amanti ha origini remote, e affonda le radici nella zia diciottenne che tornò da Londra appena in tempo per la mia nascita con una zazzera ossigenata sulla testa e una decina di musicassette (pirata, of course) con la discografia del bell’inglese.
Possiamo quindi affermare che la mia balia artistica sia stato proprio lui, che si chiama come il marchio di certi portafogli che compravo al mercato e che ha influito non poco nelle successive decisioni estetiche: vedi taglio corto arancione, ombretto sberluccicoso celeste Pupa (l’orrore, l’orrore…), bomber viola broccato ed altri abomini.
(fonte)
Certo David, certo.
Non sto neanche a citare Labyrinth, ché credo sappiamo tutti a cosa mi riferisco.
Insomma ho sempre amato Bowie di un amore devoto e fedele, sono arrivata ad ascoltare a ripetizione Reality fino a trovarvi degli elementi piacevoli (non è stato semplice), la scorsa estate ho persino acquistato una tee con l’immagine della copertina di tale album anche se era troppo grande, anche se costava troppi soldi.
Quando ho letto il nuovo libro di Christiane F., ho sfanculato i passaggi in cui parla male del Duca pensando “una quattordicenne eroinomane si stupisce che un artista del suo calibro non avesse nulla da dirle?”, tralasciando che un po’ di creanza e buone maniere non si negano neanche a un’adolescente troppo avvezza agli oppiacei.
E insomma nonostante questa cieca (e a volte anche sorda) adorazione, non ce l’ho fatta ad ascoltare The Next Day, l’album del 2013, senza la fastidiosa impressione di star ascoltando Reality.
Terribile. Incommentabile (cit).
So di averne parlato bene in precedenza, accecata dal fascino dei primi due singoli e soprattutto del video con Tilda Swinton, ma signore e signori che terribile errore.
Per non parlare del nuovissimo Sue (Or in a Season of Crime), che vanta un testo meraviglioso ma che musicalmente non mi arriva (cit. di nuovo).
E quindi sto qui a chiedermie a chiedervi, come se non avessi altro da fare: l’affetto, l’ammirazione, la stima sono davvero incondizionati? è possibile sorvolare su cagate pazzesche, su delusioni apparentemente insuperabili in virtù di quello che è stato, di un passato glorioso che forse non ritornerà?