Non è mai stata viva più di quanto lo sia ora questo mio gatto morto, pensò, incrociando gli sguardi dei passanti, in cammino verso il negozio di giocattoli, questa gente che fa o corre o decide o subisce decisioni e per questo si sente viva o si sente d'esser viva decidendo di non decidere, di non correre, ticchettare, di non farsi comandare e soggiace, soggiace alla propria natura, all'ombra della morte che li permea e sovrasta, oppure si maschera e addobba per convincersi d'esser ciò che non sarà mai, senza accorgersi che si traveste da ciò che esattamente è, quanto questo mio Mukil, travestito alla perfezione da gatto morto, tanto quanto io son travestita da viva donna che corre ed impreca e storce la bocca o ne estorce un sorriso all'occorrenza, falsificandosi, occorrenza che ti ringrazio dio non vuol più capitare, che il cuore mio non sa più trovare, da che un veleno mi è entrato nel petto, una freccia scoccata da non so dove, dall'arco di chissà chi, un cupido notturno, creatore del veleno al quale ubbidisco docile, come tutta questa gente, che, come peso ulteriore resta schiacciata dall'aggravante dell'incoscienza, del non sapere, del creder d'essere o del pensare di poter fingere d'essere altro, un'aggravante eccome, di credersi vivi più d'una pietra, e quanto più è potente questo veleno che scorre nel loro sangue, che li tiene vivi, li sostiene e trascina come una malefica corrente o li illude o li immerge talvolta in una falsa quiete o accecante gioia che non sanno decifrare e che li fa soccombere, o li anestetizza nella speranza, che punteggia di sogni, o di incubi, all'occorrenza, là dove servisse svegliarli e tenerli pronti, in riga, sull'attenti, e darci il male e convincerci che stiamo sognando perché non riconosciamo il dolore; il tempo e l'idea della morte sono i nostri veleni, che ci costringono a fare per essere quanto basta prima d'andarcene, andar via come antidoto, e credere d'essere, credere, credere soltanto, perché questi sono veleni che abbiamo inventato noi. Per noia.Noia.E così giunse di fronte alla vetrina del negozio di giocattoli, e solo vedendosi riflessa in quel vetro si rese conto d'essersi dimenticata di sbarazzarsi di quell'imbarazzante sacchetto.
E così Mukil t'ho portato fin qui, senza volerlo, senza pensare, dovrei portarti dentro come campione, già che ci siamo, ma non è possibile, tutti capirebbero che sei un gatto morto, e che lo sarai per sempre, come vivo sei stato, e ciò che sei stato lo sarai per sempre, non capirebbero, non approverebbero, non ti posso portare con me, vedi, quella, nella vetrina è la mia faccia, in mezzo alle facce dei pelouche che non sono né vivi né morti, sono veri e falsi, e forse neppure quello, e tutto E', comunque, per quanto possa esserlo poi solo per sottrazione, come questa mia faccia nella vetrina, faccia di morte su corpo vivo, sembiante di faccia tra corpi mai stati vivi ed immortali, lo vedo tra musi di pelo non vivi non morti ed alla fine del braccio, agganciato alla mano, un sacchetto ed in trasparenza, il tuo pelo, sul tuo corpo morto, attecchito sul tuo essere passato. Quello, sempre vivo. Se si pensa troppo è perché non si è abbastanza.
Proprio di fronte al negozio di giocattoli, stava un negozio di animali. All'improvviso scorse il riflesso anche di questo, nella vetrina, e vide molte minuscole figure agitarsi dentro a piccole gabbie, confondersi e dissolversi con l'immagine degli animali di pezza, oltre al suo viso, in uno spazio nullo, cancellato. Un impulso che non conosciamo la spinse a girarsi, all'improvviso, e in dissolvenza, a dirigersi incontro a quella visione brulicante.