In altomare

Creato il 26 luglio 2012 da Arvales @ArvalesNews

Quello che induce un essere umano a uscire dal ridosso è un’intuizione che emerge dal profondo, una certezza improvvisa che conduce all’urgenza di uscire da una situazione stagnante. Il ridosso, come sa bene chi ne è ormai assuefatto, è una condizione tutto sommato piacevole, ricca di riferimenti utili a mantenere un’accettabile rapporto con il quotidiano.  L’altomare, per come ho avuto l’avventura di sperimentarlo, è caratterizzato invece dall’assenza di riferimenti esterni. Per fare ossigeno con l’aria salmastra che si respira in altomare è necessario allargare lo sguardo, entrare in un consapevole stato d’intimità con la propria anima, navigare in una dimensione mentale nella quale non ci si chiede perché il mare è blu, ma quanta acqua potabile è rimasta nel serbatoio e per quanti giorni potrà ancora durare. Ecco gli unici riferimenti su cui si può far conto quando la rotta ci spinge fuori dalla carta nautica: i bisogni essenziali, vitali;  bisogni che sono così pochi e modesti da stare in un borsone o in uno zaino.
Se in una notte col cielo coperto ci si sveglia su una barca in pieno oceano, senza bussola o altri strumenti di navigazione, l’unica cosa da fare è regolare la rotta e le vele sul vento, così da mantenere una buona andatura, e sedersi in pozzetto ad ascoltare cosa ne pensa il mare, a riflettere sul bisogno che si è manifestato con l’impulso di uscire di casa e mettersi in viaggio senza altra destinazione che un punto cardinale. Per chi come me è nato e ha vissuto l’infanzia in un borgo marinaro, il mare rappresenta l’alternativa misteriosa e affascinante con la quale abbiamo giocato fin da bambini. La nostra storia col mare è cominciata zampettando la domenica mattina tra le pietre e la sabbia della spiaggia; poi è continuata con le piccole dita grassocce che accarezzavano il fondo del mare, anche se in pochi centimetri d’acqua cristallina, fino al momento in cui il respiro è diventato tutt’uno con l’onda e abbiamo metabolizzato l’eccitante certezza del galleggiamento, dell’abbraccio senza tempo con l’interfaccia liquida del pianeta. Così, una lunga estate dopo l’altra, il contatto fisico col mare si è arricchito di nuove modalità d’interazione, che hanno allontanato sempre più la riva e aumentato la distanza dal fondo. Chi è nato in una metropoli e non ha conosciuto altro mare che quello delle vacanze, potrebbe chiedersi cosa può spingere un essere umano a partire per un viaggio senza meta verso l’orizzonte marino, qual’è il senso di andare in cerca della dimensione mentale dove s’incontrano solo i propri fantasmi. Forse ho risposto in parte a questa domanda, quando ho menzionato l’emergere dei bisogni vitali, la consapevolezza di quanto il nostro stesso esistere dipenda dall’aria che respiriamo, dall’acqua, dal cibo, da quel sapere scritto nelle nostre viscere, che ci spinge a cercare l’equilibrio sul bordo di quell’immenso tritacarne che è la natura, anche a costo di finirci dentro.
“In altomare”, è una riflessione sulla condizione mentale di chi, mollati gli ormeggi, ha perso il contatto con quei riferimenti che costituivano il suo sistema di relazioni col mondo. Chi vive in altomare ha di fatto spento un lato della propria interfaccia: quello rivolto verso l’esterno, il lato esposto al mondo, quello che intercetta i messaggi che provengono da altri esseri umani. Non è per una qualche volontà che questi navigatori solitari si sottraggono al rapporto umano con altri ma per amore di verità: sanno di essere con la testa altrove anche se noi li vediamo, anche ce ci vivono accanto e apparentemente interagiscono con noi. I filosofi, gli scienziati, gli artisti, che della necessità di esplorare l’altomare della vita ne hanno fatta una virtù, hanno accettato di pagare con la moneta della solitudine il prezzo della scelta di assecondare la loro propensione a navigare nel concepibile, e sono grati verso chi comprende la loro condizione di eterni viaggiatori. Anche loro hanno bisogno ogni tanto di un porto sicuro in cui riposarsi e riparare i danni dell’ultima tempesta alla quale sono sopravvissuti. Anche loro amano ogni tanto perdersi nel rassicurante e caldo abbraccio di un sentimento; ogni tanto però, perché in altomare ogni onda spurga la mente anche dall’amore, che è forse l’unico pensiero capace di disturbare anche lo stomaco più resistente.
Quando sono a terra e incontro qualcuno in altomare, se non mi risponde alla prima lascio perdere: so che insistere finirebbe solo per irritarlo. Innamorarsi di qualcuno che vive in altomare poi, da ragazzini può anche essere consentito, da adulti è puro autolesionismo perché ci s’innamora di qualcuno che non c’è per nessuno, nemmeno per se stesso; qualcuno, nel senso più ampio del termine, che non abbandonerà la propria navigazione solo perché in porto ci sono due braccia pronte ad accoglierlo.
Prima o poi, comunque, quasi tutti i navigatori, anche i più solitari, tornano all’ormeggio ed è quello il momento buono per interagire con loro, quando sono seduti in qualche bar del porto, moderatamente ubriachi e con la voglia di raccontare al mondo quello che hanno visto quando vivevano in altomare


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