«In Bahrain la lotta è democratica, non settaria». Intervista agli oppositori di “al-Wifaq”

Creato il 30 settembre 2012 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR

Il Bahrain (in arabo “al-Baḥrayn”, che significa “i due mari”) è un piccolo Stato insulare arabo nel Golfo Persico, dal 1783 governato dalla dinastia reale degli Āl Khalīfah. Con oltre 1.230.000 abitanti su una superficie di meno di 800 km2 il Bahrain è uno dei paesi a più alta densità al mondo. Soggetto al protettorato britannico tra la seconda metà dell’Ottocento e il 1971, il Bahrain è stato a lungo rivendicato dall’Iran ed oggi ospita la Quinta Flotta degli Stati Uniti d’America. Mentre la dinastia regnante è sunnita, la maggioranza della popolazione è sciita e, secondo molti osservatori, sottoposta a discriminazioni. Negli ultimi decenni frequenti sono stati gli episodi di protesta e ribellione. L’insorgere di imponenti manifestazioni in concomitanza con la cosiddetta “Primavera Araba”, nel corso del 2011, ha provocato una dura repressione da parte degli Āl Khalīfah sostenuti da truppe del Consiglio di Cooperazione del Golfo.
Recentemente sono stati in visita in Italia, dopo aver partecipato a una riunione del Comitato sui Diritti Umani dell’ONU a Ginevra, due importanti rappresentanti dell’opposizione bahrainita, il parlamentare Hadi Almosawi e l’ex deputato Jasim Husain, entrambi membri di al-Wifāq, la più grande formazione politica del paese che detiene poco meno della metà dei seggi al Parlamento.
Li hanno incontrati per noi a Roma Daniele Scalea, Pietro Longo e Paola Saliola, rispettivamente segretario scientifico, direttore del Programma “Vicino e Medio Oriente” e ricercatrice associata dell’IsAG.

 
Com’è nata la “Primavera araba” in Bahrain?

Jasim: La domanda di democrazia in Bahrain in verità ha origini precedenti alla recente “Primavera araba”. L’arcipelago ha una lunga tradizione di dimostrazioni di dissenso. Il popolo chiede da sempre un cambiamento e non mere riforme cosmetiche che mutino l’apparenza ma non la sostanza. Ma i più non vogliono un cambiamento di regime, bensì un cambiamento interno al regime attuale. Noi chiediamo semplicemente l’applicazione dei principi della democrazia rappresentativa e del costituzionalismo: un voto per ciascun elettore, un governo che si regga sulla fiducia parlamentare, una stampa indipendente. Questo abbiamo fatto nei primi mesi del 2011. Abbiamo avanzato richieste legittime e in modo pacifico. La risposta è stata la repressione.
Hadi: L’atteggiamento della popolazione scesa in piazza è stato pacifico e moderato, ma fin dalla sera del 14 febbraio – giorno in cui sono cominciate le manifestazioni di massa – ci sono state le prime vittime provocate dalla reazione delle forze di sicurezza. Malgrado il Re si sia scusato per le morti, la situazione è presto degenerata: il picco della repressione è stato raggiunto tra il 15 marzo e il 15 maggio. In Parlamento noi eravamo impotenti: gli ordini giungevano dall’alto e scavalcavano la nostra autorità.
Jasim: La propaganda del regime continua a sostenere che la regione non è ancora pronta per la democrazia, verso la quale è necessario tendere lentamente e con passi graduali. Questo può essere vero per altre realtà, ma non per la nostra: tra i paesi del Golfo, l’unico ad essere stato investito dalle proteste è il Bahrain. La democrazia è un fatto nazionale, e il Bahrain è pronto.
Hadi: La linea della monarchia non ha molto seguito nel paese, e non potrebbe essere diversamente. In occasione della “Primavera di Manama”, gli Āl Khalīfah hanno ordinato la distruzione di numerose moschee sciite, alienandosi il supporto popolare. È tutto ampiamente documentato anche se, malgrado la copertura dei media internazionale, questi eventi hanno avuto scarsa risonanza. Il regime non ha avuto, e continua a non avere, interesse a che la rivoluzione continui in modo pacifico. Le violenze sono state provocate per trasformare la sollevazione popolare in atti di “terrorismo”. Infatti le autorità sapevano che se le dimostrazioni fossero proseguite in maniera pacifica avrebbero avuto successo.

Quali fattori hanno portato allo scoppio della rivolta? Anche l’economia, come in altri paesi coinvolti nella “Primavera araba”, ha avuto il suo ruolo?

Hadi: Come dicevamo prima, la spinta rivoluzionaria è sorta da una domanda di democrazia, ma anche il fattore economico ha giocato un ruolo tutt’altro che indifferente. In Bahrain il sistema economico è dominato dai cittadini di confessione sunnita: il 95% dei disoccupati sono sciiti, cui sono preclusi numerosi settori lavorativi. Molti hanno inoltre perso il lavoro in conseguenza dell’ondata di protesta: migliaia di persone sono state licenziate da uffici pubblici (anche poliziotti e dipendenti del Ministero degli Interni), da sindacati, persino da privati (banche, hotel, addirittura imprese familiari). Solo grazie alla pressione internazionale alcuni di loro hanno potuto recuperare il posto dopo molti mesi.
Jasim: Anche in questo caso è tutto documentato. A seguito degli incidenti e del numero crescente di morti, nel giugno dello scorso anno il regime ha istituito una commissione d’inchiesta formalmente indipendente per indagare su quanto accaduto. Il rapporto è stato pubblicato il 23 novembre 2011. Consta di ben 500 pagine in cui si descrivono molti degli atti di repressione ordinati dalle autorità. La commissione è stata un atto del regime, ma composta da personalità internazionali come il prof. Sharif Bassiouni, che l’ha presieduta. Altri membri erano Nigel S. Rodley, ex incaricato speciale dell’ONU sulla tortura, Philippe Kirsch, ex giudice della Corte Penale Internazionale, il dott. Mahnoush Arsanjani, ex consulente delle Nazioni Unite, e il dott. Badria al-‘Awadhi, membro del think tank statunitense Freedom House.
Hadi: Vorrei sottolineare che le cause scatenanti delle proteste sono state essenzialmente due: 1) la lettera che abbiamo inviato, come deputati di al-Wifāq, a Ban Ki Moon per sottolineare lo stato di discriminazione in cui versa la comunità sciita bahreinita (che, ricordiamolo, forma la gran parte della popolazione nazionale); 2) ben cinque consiglieri, eletti dal popolo e che sedevano nelle assemblee locali di altrettanti distretti a maggioranza sunnita, sono stati allontanati dal loro incarico perché avevano esposto nelle proprie municipalità degli striscioni inneggianti ai diritti degli sciiti in quanto cittadini. Insomma: la rivolta è scoppiata perché gli sciiti bahrainiti hanno rivendicato i propri diritti. Niente di più.
Jasim: L’economia non è stato il fattore principale. Il Bahrain non è un paese ricco, se lo si confronta con gli standard di vicini regionali quali Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Qatar, ricchi di gas e petrolio. Ma ha un sistema economico di tipo liberale che è relativamente funzionante. Quello che abbiamo ci basta, o meglio: ci basterebbe se non fosse tutto concentrato nell’élite sunnita.

Allora quello in Bahrain è uno scontro settario, come lo ha definito lo Shaykh Yusuf al-Qaradawi nei primi giorni di protesta?

Hadi: Nient’affatto! Il regime ha interesse a veicolare questa tesi, cioè quella dello scontro di musulmani sciiti contro musulmani sunniti. Agendo in questo modo può giustificare la repressione nel nome dell’unità nazionale. Il regime ha bisogno che lo scontro sia settario. Ma non lo è: noi non abbiamo alcun problema a stare con i sunniti, così come con i non-musulmani. Quel che chiediamo è soltanto l’applicazione della democrazia rappresentativa! Ma gli Āl Khalīfah sanno che i numeri non sono dalla loro parte.
Jasim: Anche se le proteste sono state innescate da noi di al-Wifāq, ossia il maggiore raggruppamento sciita, abbiamo manifestato contro le ingiustizie ed i torti, e con noi c’erano anche tanti sunniti. Il confessionalismo non c’entra nulla. Al-Wifāq (che formalmente è un’associazione, dato che i partiti sono proibiti) è sostenuto dal popolo per la sua credibilità e lotta alla corruzione, non per un fatto confessionale. Al-Wifāq sostiene i diritti di tutti (compresi i lavoratori stranieri), a prescindere dalla loro fede. La nostra lotta non è settaria: è politica. Sunniti e sciiti non hanno problemi tra loro, sono frequenti anche i legami familiari tra i due gruppi: è il regime a voler dividere le comunità per poter descrivere i disordini come un problema settario.

Le autorità del Bahrain hanno accusato la protesta di essere un complotto dell’Iran per spodestare la famiglia regnante. Come rispondete? Avete dei rapporti con l’Iran?

Hadi: L’Iran non è affatto un regista silenzioso: anzi, a Tehran sono rimasti sorpresi come chiunque altro. Tutt’al più, i media iraniani hanno offerto un’eccellente copertura degli eventi.
Jasim: Quella del coinvolgimento iraniano è una storia vecchia. La si ripete da sempre perché il paese era una provincia persiana fino a qualche secolo fa, prima del dominio britannico. Ma questo non c’entra. Le cose non sono interrelate in alcun modo.

Altri invece hanno sostenuto che gli USA sarebbero rimasti più freddi di fronte alle vostre proteste, rispetto che alle rivolte in altri paesi arabi, in quanto alleati degli Āl Khalīfah che ne ospitano la Quinta Flotta. Cosa ne pensate?

Hadi: Gli Stati Uniti nel nostro paese investono parecchio, non solo in termini economici: mi riferisco soprattutto ai progetti delle ONG sul fronte della sensibilizzazione ai temi della democrazia, della cittadinanza e dei diritti politici. Certo, come tutte le grandi potenze hanno i propri interessi da tutelare. Non è mica un mistero.
Jasim: Ciò non implica che gli USA siano fedeli alleati degli Āl Khalīfah. Washington ha bisogno di stabilità nella regione, per motivi economici, strategici ed altro. Non sono gli Āl Khalīfah il pilastro della strategia nordamericana nell’area del Golfo. O meglio, che siano loro o altri poco importa: l’importante è che ci sia stabilità. Non a caso alcuni settori della classe dirigente bahrainita diffida fortemente di Washington, perché teme ripeta quanto fatto in Egitto, dove ha abbandonato il suo fedele alleato Mubarak. Posso dire che senza le pressioni degli USA la repressione nei nostri confronti sarebbe stata ancora peggiore. Washington appoggia le riforme, non la linea dura governativa.

Da quanto afferma sembra quasi che gli Āl Khalīfah non siano poi così forti. Cosa distingue questa famiglia dalle altre come i Sa‘ud o gli Al Thani?

Hadi: Si può certamente affermare che gli Āl Khalīfah sono stati i più sfortunati tra i clan menzionati. Perché? Perché costoro hanno la sensazione di essere inadeguati. Ciò è palese. Si percepisce. Gli altri regnanti hanno la fortuna di governare su un tessuto sociale omogeneo dal punto di vista religioso. Gli sciiti sono presenti in Arabia Saudita e, qua e là, un po’ dovunque nella Penisola. Ma si tratta di sacche minoritarie che, a parte alcuni casi, non creano grossi problemi. Il Bahrain è l’eccezione, perché qui sono maggioritari. Gli Āl Khalīfah sanno di essere sfortunati a dover governare su una maggioranza sciita. Del resto, anche il popolo sa di essere sfortunato ad avere una classe di governanti sunniti! O meglio, ad avere un governo condotto da una famiglia sunnita che attua politiche discriminatorie.

Il vostro partito propone un futuro politico alternativo per il paese? Desiderate mantenere la monarchia o immaginate un sistema repubblicano, magari connotato come “islamico”?

Jasim: Per il momento noi chiediamo soltanto che venga rispettato lo Stato di diritto, formalmente sancito dalla Costituzione (testo che comunque andrebbe integralmente rivisto).


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