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In collina, le citta’

Creato il 12 dicembre 2011 da Tnepd

leviathan

 

“Lo Stato, in quanto tale, è macchina: è un’opera approntata dagli uomini, nella quale materia e artefice, materia e artifex, macchina e costruttore, sono la stessa cosa, sono cioè uomini.”

(Carl Schmitt, Scritti su Thomas Hobbes)

 

Per chiunque lo abbia letto, ormai quasi trent’anni fa, il racconto di Clive BarkerIn the hills, the cities” (In collina, le città), contenuto in “Infernalia”, il primo volume dei  “Books of Blood”, è difficile da dimenticare. Sarebbe potuto diventare un assoluto capolavoro dell’horror politico anglosassone, considerata la genialità dell’idea che ne sta alla base e il periodo, assai significativo, in cui è stato scritto: la prima metà degli anni ’80, quando in Inghilterra si era già messa in moto, con effetti dirompenti, la macchina del liberismo folle di Margaret Thatcher, foriera dei disastri che il mondo intero ha potuto poi degustare nel corso dei decenni. “Infernalia” venne pubblicato in Inghilterra nel 1984, anno significativo non solo perché “orwelliano”, ma anche perché fu il penultimo della vita di Carl Schmitt, il teorico dello stato nazionalsocialista tedesco al cui pensiero politico “In the hills, the cities” sembra liberamente ispirato.

 

Se l’occasione del capolavoro è stata – a mio avviso – mancata, lo si deve a motivazioni di carattere puramente stilistico. Letterariamente, Barker non è certo un virtuoso dello stile. La sua narrazione indulge in modo eccessivo sui cliché espressivi dell’horror (i fiumi di sangue, la moltitudine di cadaveri straziati, gli improvvisi cazzotti allo stomaco del lettore, perfino l’antico “topos” cinematografico della contadina mitteleuropea sinistra ma ospitale), riuscendo quasi a sprecare (quasi) ciò che di veramente agghiacciante è presente nel racconto, comunque indimenticabile. E cioè il terribile vaticinio – “terribile” per l’immaginario politico delle masse odierne, che tale lo reputano – sull’imminente decomposizione della chimera individualista, perno dell’ideologia democratica occidentale; e sulla resurrezione di dottrine sociali collettiviste che si credevano (e ancora si credono) scomparse dall’Europa “americanizzata” con l’eclissi della prima metà del Novecento.

Rovinerò, qui di seguito, il piacere della lettura a tutti coloro che non conoscono il racconto, riassumendone la trama.

Due giovani gay americani di San Francisco, in vacanza in Jugoslavia (che all’epoca non era ancora “ex”), si ritrovano involontari spettatori di una singolare quanto raccapricciante disfida che oppone tra loro, ogni dieci anni, due cittadine dell’entroterra, Popolac e Podujevo. Le loro popolazioni si ritrovano ogni due lustri sulle colline e qui costruiscono due smisurati giganti di forma umana, ciascuno dei quali è composto dai corpi di tutti gli abitanti di ciascuna città, intrecciati tra loro con cavi, funi e tiranti in un folle lavoro d’ingegneria. I due giganti, che riproducono un essere umano non solo nell’aspetto esteriore, ma anche in ogni dettaglio dell’anatomia (sistema nervoso, apparato digerente, ecc.), dovranno poi affrontarsi in leale combattimento. Qualcosa però va storto. Il gigante di Podujevo, a causa di un difetto di costruzione, collassa su se stesso prima che la lotta inizi. Nel crollo, l’intera popolazione di Podujevo rimane uccisa, straziata e mutilata. Ai due protagonisti, sopraggiunti per caso sul luogo della tragedia, si presenta l’infernale spettacolo di decine di migliaia di corpi umani, ancora agganciati tra loro, devastati e schiacciati, in un terrificante intrico di membra. L’altro gigante, quello di Popolac, fugge via, sopraffatto dall’orrore. La terribile esperienza lo trasforma in una creatura autonoma, dotata di pensiero indipendente rispetto alla moltitudine degli individui che lo compongono e che ne costituiscono le “cellule”. Nell’incontro finale col gigante sopravvissuto, uno dei due protagonisti resterà ucciso, l’altro si unirà gioiosamente alle “cellule” che compongono la leviatanica creatura.

Ovviamente non saprei dire se Barker, scrivendo il suo racconto, avesse in mente il Leviatano di Hobbes o la rielaborazione politica di Schmitt (o magari entrambe le cose o nessuna delle due). Fatto sta che l’anatomia dei due leviatani del racconto è squisitamente schmittiana, e non hobbesiana.

Come è noto, nel modello di Hobbes i cittadini sono le membra del corpo dello Stato, ma non partecipano della forza politica che lo anima. In Hobbes, la politica è qualcosa che sta al di fuori dell’individuo: nasce con la rinuncia dei cittadini alle loro prerogative e con la delega di esse ad un sovrano, che dovrà utilizzare i poteri conferitigli per il bene comune.

Nel modello di Schmitt, invece, la politica vive in interiore homine. Lo sviluppo dell’individuo avviene in perfetta simbiosi con quello della collettività ed è dalla “scintilla” dell’intelletto, scaturita in un dato momento nel corpo comune della moltitudine, che consegue spontaneamente la costituzione dello Stato. I poteri dello Stato e quelli della collettività sono la stessa cosa, appartengono ad un medesimo organismo, politicamente vivo in ogni sua parte.

Il modello di Hobbes venne elaborato per giustificare la dittatura di Cromwell, con la quale si doveva implementare il sistema giuridico liberale in grado di assicurare l’espansione della classe borghese mercantile.

All’opposto, il modello di Schmitt nasce dalla profonda crisi dello Stato liberale (incarnato dalla Repubblica di Weimar) e dalla volontà di restituire allo Stato la piena sovranità che esso ha finito per perdere a tutto vantaggio di una pluralità di centri di potere, competitivi ed in conflitto fra loro. E’ naturalmente il Partito Nazionalsocialista tedesco la componente cui Schmitt guarda per la realizzazione di questa unificazione dell’ordinamento, in virtù della quale la titolarità del politico torni ad appartenere solo ed esclusivamente allo Stato.

Il modello di Hobbes è conflittuale e pluralista, elaborato su misura per favorire lo sviluppo del dinamismo borghese: ciò che lo Stato hobbesiano garantisce è che tutti i cittadini abbiano uguale capacità di nuocersi a vicenda.

Il modello di Schmitt aborre la conflittualità. “Lo Stato serve proprio” – afferma Schmitt nei suoi Scritti su Thomas Hobbes - “a porre fine alla guerra civile; ciò che non pone fine alla guerra civile non è Stato”. Non è dunque tollerata alcuna forma di pluralismo d’interessi, competitività o confronto dialettico. L’unica guerra civile legittima è quella in cui sia lo Stato stesso a indicare il gruppo di individui che minaccia la sua esistenza. Se invece ogni singolo gruppo adotta una propria distinzione “amico-nemico”, allora lo Stato viene esautorato e cessa semplicemente di essere Stato.

Il modello di Hobbes attribuiva alla costituzione dello Stato una giustificazione di razionalità e una finalità di tipo prettamente sociale. Attraverso il “contratto”, i cittadini decidono, con scelta razionale, di rinunciare alle proprie prerogative, per conferirle ad un sovrano che utilizzi i poteri così acquisiti per porre fine al caos e alla violenza dello “stato di natura”.

In Schmitt non vi è nessuna giustificazione razionale, salvo quella di restituire allo Stato la sovranità usurpatagli dalla dialettica sociale. E la finalità dello Stato così reintegrato nel suo potere è totale: non ha la mera funzione di disciplinare il pluralismo esistente allo stato di natura, ma va ben oltre, attribuendo alla politica il compito di sovrintendere a tutte le questioni inerenti alla vita associata, all’etica, ai limiti morali e giuridici di ogni singolo individuo, alle relazioni sociali di tipo semplice e complesso, alla stessa forma giuridica di cui lo Stato dovrà rivestirsi. Lo Stato non ha dunque una genesi razionalistica, ma è l’espressione storica di un’esigenza filosofica umanistica che vive nell’individuo e nella comunità di cui egli partecipa. Delle tre “serie” schmittiane di cui si presenta composta l’unità della vita pubblica (Stato, Movimento, Popolo), è il Movimento (cioè il Partito come espressione del dinamismo collettivo) quella che conduce le altre due, non un “sovrano” esterno alla moltitudine.

Immagino sia dunque il timore di una reviviscenza del modello schmittiano/hitleriano, e non di quello hobbesiano, ciò che alligna nel racconto di Barker, alimentato dal clima della politica thatcheriana che iniziava a fare a pezzi, come una macchina devastatrice e inarrestabile, tutte le illusioni di dialettica sociale su cui l’Inghilterra e l’Europa si erano cullate nei precedenti decenni. Il timore era ampiamente giustificato, come si è poi visto dai risultati. La domanda che mi pongo è: lo è ancora? Il modello schmittiano-nazionalsocialista è qualcosa da temere o invece da auspicare nella presente situazione politica?


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