Comincia con l’elaborazione di un lutto “Miss Violence”, con le difficoltà di una famiglia sconvolta che cerca di riprendersi da qualcosa con cui mai si sarebbe aspettata di dover fare i conti. I metodi educativi del nonno - proclamatosi capofamiglia a causa dell’assenza di un padre vero e proprio - di raddrizzare un clima ovviamente teso emergono duri e dittatoriali, esagerati spesso, illudendo inizialmente a una terapia d’urto risanatrice, prima di attestarsi, man mano, come anticipazioni di qualcosa di più grande e più minaccioso del previsto. D'altronde il regista greco Alexandros Avranas sa perfettamente cosa vuole e come accaparrarselo, il suo tocco è notevolmente sicuro e volontariamente manipolatore, gestisce la narrazione in maniera ricattatoria, intensificando il potere del protagonista maschile e limitando quello delle vittime femminili, per esaltare una sottomissione totale, laconica quanto taciuta.
Gestisce bene la tensione, la costruzione delle scene, incuriosisce ostentando un tocco vorace, violento e imposto. Avranas studia la strategia per disturbare e scioccare lo spettatore e la cosa gli riesce con mestiere, incollandolo e seducendolo con un'oscurità che lentamente va a ridursi lasciando spazio alla luce. Racconta la prigionia e l'incapacità di reagire e ribellarsi, predilige l'uso di una regia molto statica, a camera fissa, in grado di creare la giusta tensione e di gettare nello sconforto lo spettatore non appena decide che ne è giunto il momento.
Avranas si accaparra così, quanto meno, una buona fetta di pubblico, la fetta distratta, quella occupata a cadere in trappola e a lasciarsi coinvolgere più del dovuto dagli eventi. Quella fetta non si accorge della fattura artificiale delle venature, gli basta tirare un sospiro di sollievo e di serenità quando accontentata e servita da quel che voleva. Ed è tutto un po' scorretto e fin troppo facile.
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