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Prende di petto la chiesa cattolica e la bastona forte dietro la nuca. Non ha intenzione di reprimersi o di addolcirsi, la sua rabbia è priva d’inibizioni (o quasi), si sprigiona libera, sfrontata, provocatoria.
Tratto da una storia vera, “Philomena” è una di quelle vicende che spingono a mettere a dura prova la devozione verso qualsiasi religione, interpretata a immagine e somiglianza da esponente a esponente, che recidivamente, in nome dell’onnipotente, trova l’arroganza di giustificare azioni prive di umanità, egoistiche e imperdonabili. Come, per esempio, quella di vendere il figlio di una ragazza ingenua irlandese rimasta in cinta per errore di gioventù e in cerca di perdono in convento perché convinta che il piacere più grande mai provato debba essere per forza una forma di peccato. E’ il 1952 e cinquant’anni dopo la stessa ragazza, diventata anziana, non ha ancora perduto l’ossessione di ritrovare il figlio scomparso, così, incapace di farlo da sola, insieme alla figlia (che nulla ha a che vedere con l’altro) si affida a un giornalista declassato che dopo qualche riserva accetta di lavorare al caso sperando in un rilancio.
E’ descrivibile come un piacere assoluto “Philomena”, la tipica pellicola che mischia astuzia registica ed eccellente scrittura e che si esprime schietta e sincera nella miglior maniera possibile. Judi Dench (una garanzia) e Steve Coogan (magistrale) formano una coppia d’interpreti straordinari, fanno da cornice a questa ricerca misteriosa e allo stesso tempo denuncia gravissima, e non c’è attimo che l’ipnosi scenica smonti o cessi di generare risate e tensione. Perché in primis è alle risate che punta Frears, impugna l’elemento ironico e lo cosparge in dosi massicce su di un territorio profondamente drammatico. Ha a disposizione la fede incrollabile di una donna che intorno al cattolicesimo ha fondato le basi solide di un’intera esistenza e come contraltare può schierargli contro il pensiero di un ateo convinto che a ogni inquietante scoperta non nasconde le incomprensioni nei confronti di chi, nonostante tutto, mantiene il rispetto e una devozione incrollabile.
Ci va giù pesante “Philomena” ma non può fare altrimenti, appena possibile smorza evitando di eccedere in inutili cattiverie o alterazioni, ma il pregio migliore è che non si morde mai la lingua e proferisce per filo e per segno tutto ciò che pensa. Frears si riserva (o si trattiene?) di non giudicare tutta un’erba un fascio e nella fase migliore, dentro un finale potentissimo, trova anche il modo di alleggerire la rabbia e il dolore placando il nervosismo con la maestria di chi sa far bene il suo mestiere e conosce il momento preciso per dire basta.
Sente il bisogno di lasciare uno spiraglio, dunque, ottimista che la fede per alcuni sia davvero un motivo di forza e non solo radice di crudeltà o manipolazione.
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