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Si intitola "Tracks" nello specifico, così come il nome della pellicola diretta da John Curran, ribattezzata frettolosamente da alcuni come un "Into The Wilde" al femminile, paragone che evidentemente dimentica a priori il netto distacco che divide un racconto drammatico da un altro a lieto fine sdolcinato. Quello del regista statunitense infatti è più che altro un surrogato insapore e scialbo, privo di reali sofferenze e coinvolgimento, giocato tutto sullo sfondo caldo e avvolgente di un deserto maestoso e immenso. Poca cura ai personaggi, dunque: la Robyn di Mia Wasikowska non è munita del coerente appeal - fondamentale tra l’altro quando si opta di poggiare un intera pellicola su di un unica spalla, e come lei vale lo stesso per i suoi comprimari, abbozzati come schizzi su un foglio di carta e impossibilitati ad arricchire, aiutare o valorizzare la scena come teoricamente dovrebbe accadere.
Va da sé perciò che il maggior difetto della pellicola di Curran sia rappresentato, senza ombra di dubbio, da una sceneggiatura scritta in maniera approssimativa sotto ogni punto di vista. Il mancato spessore dedicato alla Davidson impedisce di comprendere i reali motivi che la smuovono a compiere l’impresa, le sue fragilità sembrano quasi venir nascoste per poi essere scongelate in dei momenti chiave prescelti e allo stesso modo la sua solitudine, prodotta dalla paura di instaurare rapporti con gli altri suggerita sempre più a parole che a fatti.
Vogliamo credere quindi che la storia divenuta popolarissima di questa scrittrice sia stata meno noiosa di come Curran invece l'ha raccontata. Che gli aiuti intervenuti nei suoi confronti siano stati meno architettati di quelli presenti nello script e che peregrinare per duemilasettecento chilometri nel deserto, accompagnati da quattro cammelli, sia un’esperienza più emozionante sia da vivere che da raccontare. "Tracks" questo non è riuscito a trasmettercelo, per cui adesso ci accontentiamo unicamente di sostenerlo in teoria.
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