Mi è giunta inaspettata la dolorosa notizia della morte di Carlotta Guareschi. Sulla mia posta elettronica è arrivato un “messaggio per gli amici di Giovannino”. Scrive il fratello: «Oggi ha concluso serenamente il suo percorso terreno mia sorella Carlotta riunendosi in cielo ai nostri genitori. Sposa, madre e nonna ammirevole, ha dedicato tutta la sua vita alla famiglia, alle persone che la circondavano e alla cura della memoria di nostro padre. Sono certo che la “Pasionaria” sia già tra le braccia di Giovannino e Margherita» – Alberto Guareschi, Roncole Verdi, 25 ottobre 2015.
Come si sa, Carlotta non era soltanto la figlia di Giovannino Guareschi, ma anche uno dei riuscitissimi personaggi usciti dalla penna del grande scrittore, insieme ad Alberto e alla mamma, insieme a Peppone e a don Camillo. Per il lettore era la “Pasionaria”. Tante cose meravigliose si diranno di lei e anch’io avrei tanto da dire. Ma in certi momenti dolorosi non si ha molta voglia di parlare o di scrivere, tanto meno di leggere.
Riesco a dire soltanto due cose. La prima mi riguarda personalmente. Un giorno ero in una cittadina del Nord-est, quasi al confine con la Slovenia, per presentare il mio libro su Giovannino Guareschi. Esco dall’albergo e mi sento chiamare. Era Carlotta che mi veniva incontro e mi chiedeva se ero io l’autore del libro su suo padre. Non ci eravamo mai incontrati prima. Nonostante ciò, era venuta fin lì per sostenere la presentazione del mio libro. Avrei voluto dirle che non doveva scomodarsi per raggiungere un posto così lontano, avrei voluto chiarire che io non sono un vero scrittore. Invece, non le dissi niente di tutto questo, pieno di meraviglia di fronte al fatto che un mito si era materializzato davanti ai miei occhi. Un personaggio che fino a un momento prima aveva fatto parte del mondo ideale dei racconti di Guareschi, era in quel momento passato nel mondo reale, presente in carne e ossa.
Passo alla seconda cosa. Dal campo di internamento dove lo avevano rinchiuso i tedeschi, Giovannino Guareschi fece ritorno a casa il 1° settembre del ’45. Aveva viaggiato tutta la notte ed era arrivato quando cominciava appena ad albeggiare. Non bussò alla porta, ma se ne stette lì davanti ad aspettare. Non voleva disturbare. Quando Margherita finalmente si affacciò, Guareschi le andò incontro. Entrò in casa; i bambini dormivano ancora. Disse lei: «I bambini. Sono ancora a letto. Quello è il letto. Non riconosci la nostra imbottita rosa?» Guareschi guardò attentamente. Racconta: «Effettivamente qualche macchia rosa si vedeva nel grigio opaco degli stracci. Allora mi buttai bocconi sulla passerella e cominciai a frugare in mezzo agli stracci. Riuscii a pescare un gatto bigio, due piccoli cani. Poi scarpe, pentolame, e una gallina che fuggì spaventata. Bambini niente». Dopo un po’, nel mezzo del disordine generale, Guareschi tornò a frugare: «poi ripresi le ricerche aiutandomi con un piccolo rastrello, e alla fine, sollevando uno straccio blu, scopersi qualcosa di rosa». Quella era la prima volta che il padre vedeva sua figlia Carlotta. Era nata quando già lui era stato strappato alla sua famiglia e deportato nel lager.
I bambini crebbero, ma Carlotta era ancora una ragazza quando il padre ripartì. E questa volta per sempre, strappato definitivamente agli affetti familiari da un infarto fatale e anche un po’ dalla cattiveria degli uomini. Ovviamente, non credo sia del tutto vero che quando Giovannino Guareschi tornò dal lager in casa sua ci fosse quel gran disordine. Penso piuttosto che lo scrittore abbia voluto creare questa stupenda immagine poetica di un padre che con il suo rastrello, tra gli stracci che ricoprono il mondo intero, cerca i suoi figli. Li cerca e li attira a sé con la sua grande mano. Guareschi era uno che non credeva nella morte. Almeno, non credeva possibile che uno come lui potesse starsene tutto quel tempo, per l’eternità, con le mani in mano. Dicono che si sia portato nella tomba una penna per scrivere e altri attrezzi per lavorare. Oltre ad aver continuato a scrivere, penso abbia anche continuato a cercare, con il rastrello, la sua piccola Carlotta; ha cercato, girando e rigirando in mezzo a questo “grigio opaco degli stracci” che sta ricoprendo il nostro povero mondo, sempre più pesantemente. Ha cercato finché non l’ha ritrovata.
Quando gli uomini torneranno a Dio, si accorgeranno che Egli può essere rappresentato proprio come lo disegna Guareschi, come un padre misericordioso – il Padre – che, nel grande disordine di un universo oscurato dalle colpe, col suo rastrello cerca pazientemente i suoi figli per riportarli alla luce.
Guareschi era uno scrittore che diceva umilmente di scrivere per i suoi “ventitré lettori”, uno in meno dei ventiquattro che si attribuiva il Manzoni, anche lui per umiltà. Penso che nemmeno questo sia vero. Se pure fosse pensabile che ventitré lettori possano aver letto gli oltre venti milioni di libri che sono stati venduti, Guareschi, in realtà, non scrisse per nessuno di loro. Scrisse soltanto per Carlotta e per Alberto, suoi figli. Egli non scriveva per un lettore, ma per il proprio figlio – il “postero mio diletto” – e noi che siamo lettori dei suoi libri nulla potremmo capire se non credessimo di essere tutti come dei figli, se non riuscissimo a cogliere una personale corrispondenza con questo padre buono. Di un padre che con la sua mano, grande come il mondo, vuole sostenere orgogliosamente e per sempre – per l’eternità! – ognuno dei suoi figli ritrovati. Come crediamo che faccia adesso con la cara, con l’indimenticabile Carlotta.