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Rosato, origine politica Areadem, l’area di Dario Franceschini, ora praticamente renziano, tra i più fidati del premier, capogruppo vicario del Pd alla Camera: a lui è toccata la gestione del gruppo di Montecitorio dopo le dimissioni di Roberto Speranza, in protesta contro l’Italicum. E infatti era in predicato di diventare il nuovo capogruppo a tutti gli effetti. Invece sembrerebbe che Renzi voglia spostarlo al partito, sulla base della sua maturata conoscenza dei meccanismi interni a questo strano ‘animale politico’ chiamato Pd. Ma di certo, ora che il numero dei voti al partito è calato, come tutti gli altri partiti tranne la Lega (analisi istituto Cattaneo), Renzi vuole guardare bene all’interno della creatura che si trova a gestire, rinnovare la sua classe dirigente locale, fare in modo di non subire candidature come quella di Raffaella Paita in Liguria o di Vincenzo De Luca in Campania, entrambi “non renziani”, sostiene il premier nei ragionamenti con i suoi. E i suoi lo spiegano: “Paita, figlia del governo Burlando in regione. De Luca, origine politica bersaniana o comunque vecchia guardia Pd, padrone delle tessere al sud, inamovibile…”. Tanto che nemmeno Renzi è stato capace di eliminarlo dalla corsa elettorale Dem. L’idea è di produrre una nuova classe dirigente che sul territorio applichi il verbo del rinnovamento avvenuto a livello centrale. E per tutto questo serve il cambio al vertice.
E anche con tempi abbastanza immediati. Renzi potrebbe parlarne anche lunedì sera, alla direzione nazionale convocata per le 21, al ritorno dal G7 in Germania. Al gruppo a Montecitorio, tra l’altro, Guerini andrebbe a gestire una fase complicata. Perché d’ora in poi il premier è determinato ad applicare alla lettera il regolamento di gruppo che prevede il rispetto da parte di ogni parlamentare delle decisioni deliberate a maggioranza, pena l’espulsione dal gruppo. Una scelta che, in caso di nuove tensioni con la minoranza interna, verrebbe operata dall’ufficio di presidenza del gruppo, Guerini appunto, d’accordo col premier, s’intende. E invece Rosato al partito andrebbe a gestire un’impresa pure complessa: costruire il Pd renziano che ancora non esiste. E’ un rimescolamento di ruoli che – nei propositi renziani - non dovrebbe dare l’idea della caccia al capro espiatorio per via dei problemi evidenziati dalle regionali. Perché comunque “abbiamo vinto”, insiste ufficialmente il premier.
Ma il disegno di partenza va quanto meno rivisto. “Non è cambiato nulla”, dice Dario Parrini, deputato e segretario del Pd Toscana, renzianissimo e appassionato di modelli elettorali e modelli di partito. “Mica immaginavamo il Partito della Nazione come partito che prendesse tutto, senza un avversario di centrodestra? Il Pd deve essere un partito di sinistra, ma aperto sennò non si vince”. Ma il dato oggettivo che pure ammettono nei circoli renziani lontano dai taccuini è che a ottobre, quando Renzi lanciò la sua ‘big tent’, si prevedeva un disfacimento totale del centrodestra sull’onda della crisi del berlusconismo. Di certo nessuno, dentro e fuori il Pd, avrebbe scommesso sulla vittoria di Giovanni Toti in Liguria. Dunque, la tentazione di stabilizzarsi come partito calamita per tutti e tutto pure fece gola al premier e ai suoi. Ora lo scenario è cambiato. “Il centrodestra esce vivo da queste regionali, seppure in un’alleanza ancora non chiarita con la Lega”, dice un renziano di rango. E poi c’è il M5s, che perde voti (sempre istituto Cattaneo) ma dimostra di essere in salute. Insomma, il Pd rischia di essere una specie di Colosseo: casa aperta a tutti ma con troppe correnti, ognuno che dice la sua anche in tv sul partito (è una delle accuse dei renziani alla minoranza) e tanti ‘capibastone’ sui territori che decidono più o meno in autonomia come e quando candidarsi. No, così non va.
E’ anche per questo che, pur annunciando il pugno di ferro nei confronti di chi in minoranza continuerà a ostacolare le scelte del governo e votare in dissenso dal gruppo, Renzi vuole invece rafforzare il rapporto con la parte dialogante dei non-renziani del Pd. I cosiddetti ‘responsabili’ (anche se i diretti interessati odiano questo appellativo) capitanati dal ministro Maurizio Martina, ultra-stimato dal premier, e nati sull’onda delle polemiche sull’Italicum. Sono Guglielmo Epifani (presidente della Commissione Attività produttive della Camera), Cesare Damiano (presidente della Commissione Lavoro della Camera) e tanti altri, in tutto una cinquantina. Le loro presidenze (come anche quella del lettiano Francesco Boccia, Bilancio sempre a Montecitorio) non verranno toccate nell’imminente turn over degli incarichi istituzionali alla Camera. Renzi ha promesso loro che cambierà solo le presidenze di Forza Italia per redistribuirle sempre tra la minoranza dialogante. Anche con lo stesso Gianni Cuperlo, che non è uno dei responsabili ma uno dei deputati di minoranza che non hanno partecipato al voto sull’Italicum, Renzi mantiene un fitto rapporto di confronto. Perché ha apprezzato le sue parole di sostanziale ‘tregua’ pronunciate dopo l’approvazione della legge elettorale. Mentre il premier non ha affatto gradito l’intervista di Pierluigi Bersani al Corriere della Sera proprio il giorno del voto, domenica. “Piena di livore”. E infatti è proprio con l’ex segretario e i suoi più stretti che il filo di confronto potrebbe spezzarsi, si è già spezzato, forse definitivamente (Fonte: Angela Mauro - Huffington Post)
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