Adesso Francesco Renda, ove ce ne fosse stato ulteriore bisogno, ci appare veramente come un classico. Basterebbe parlare della la forma narrativa prescelta che attesta la maturità piena di una riflessione che per tutti noi è stata forma di lettura, una delle non molte disponibili, per ampiezza, compiutezza di intenti e di risultati, capace di sgomitolare l’intricata matassa di una storia complessa e dilacerata. E ci ha introdotto nell’iconostasi di una ricerca intenta a decifrare significativamente i valori storici dei quadri territoriali. Questo nella contestualizzazione di una Sicilia elemento visibile e culturalmente raffigurabile di una realtà più articolata: il mezzogiorno, il paese, il mediterraneo, non solo, ma anche riferimento ideale dei ritardi della modernità per regioni che erano invece state all’origine del pensiero e delle storie d’ Europa, e che poi come nelle letture di Braudel, si erano progressivamente travasate verso occidente. Abbiamo cercato, negli anni, di dar conto di questo spaziare sapiente del Renda, tra musulmani ed ebrei, tra gesuiti e inquisizione, tra feudo e città (ricordate la Sicilia, contrariamente all’iconologia più frequentata, come terra di città?), tra Fasci e, in generale movimento contadino, tra spinte nazional-identitarie e processi unitari, tra regalità blandite e poi, se riformiste, espulse, come per Caracciolo e infine nella rilettura critica persino di Federico II. Come dimenticare per ultima la sua visione della Sicilia mediterranea ed europea? E Renda sarà tra quelli che utilizzeranno approcci letterari per trovare motivazioni sottese agli eventi. Si pensi alle letture di Verga, Pirandello, De Roberto e Lampedusa per una ricognizione possibile della storia risorgimentale. Personalmente non potrò dimenticare una lunghissima, appassionata riflessione, ad Enna, sulla cultura (…quella della Sicilia che urlava, “stanca delle bestemmie di tutte le razze”) che riusciva ad esprimere l’Isola, pur nel buio degli anni ’50, quando il solo modo di raffigurarla sembrava essere la confusione delle lingue e dei propositi della vicenda milazziana, tra ribellioni d’elites, velleitarismi, rivendicazionismi e permanenti deficit progettuali. La sua lunga riflessione appare come lungo dialogo in virtù del principio dell’eterno presente. Un dialogo come quelli che ci avevano regalato i classici per cogliere senso, radici, filosofie, quando venivano invitati a tornare ”…a quello stretto di mare ove stava Scilla,…spaventosa Cariddi…per affrontare di nuovo” la vita e le sue storie. Un classico allora con quelle permanenze di verità che possono avere solo i classici. Nei cui scrigni, ci ricordava il De Sanctis, le generazioni che si susseguono -riescono a leggere quel tanto che riescono- in ragione della loro capacità di rapportarsi ad eventi, cicli, durate. Una pedagogia che non a caso ha trovato nella narrazione filmica d’autore (Rossellini) la più attuale e percepibile forma di discorso.
Così si vivisezionò, nelle forma della tradizione orale, Portella della Ginestra, come principio di un involversi siciliano che anticiperà accadimenti statutari, esagerati, e al di fuori delle modalità della nuova costituzione, prodotta dalla resistenza, e che assicurerà alla mafia e ai blocchi storici, di consueta convivialità, percorsi facili e protetti nel quadro di parlamenti, istituzioni e poteri civili. Una vivisezione quasi come elaborazione di un lutto che dura ancora. E il tema si articolerà in periodizzazioni della storia di un male -permanente e invasivo- che nasce in imprevedibili diffusioni casuali. Si pensi ad esempio agli stuppagghieri di Monreale, narrati dalla Crisantino o alle tante sette che pullulavano -e che, se ‘nell’interpretazione canonica’ sembravano derivare da povertà e arretratezza, in realtà facevano emergere le discrepanze di questa interpretazione, e sottintendevano modus vivendi di più significativa portata- . Come sostanza di antropologie che sembravano ritrovarsi identariamente in una sorta di sub-cultura (o cultura tout court?) e di società alternativa e parallela, che detterà norme, forme di comportamenti, e produrrà modi, circuiti di società autoctoni, alla maniera, per molti aspetti, del Kanun albanese. E la nostra non sarà terra di nessuno: apparterrà, purtroppo senza esiti apprezzabili, alla consapevolezza di molti. L’inferno congiunto di dominio, vessazioni e stragi troverà rapporti, analisi, narrazioni, cinema. E talvolta sarà rappresentato come nuova invenzione del purgatorio, dove le “indulgenze” avrebbero comunque potuto fare la loro parte.
Anche i “saperi” saranno organici e il tradimento dei chierici disquisirà di sostanziali innocenze, per la diversa scala valoriale che presidiava ai comportamenti, scala di valori etnicamente e quindi ineludibilmente caratterizzante. Gli interessi intelaiati nelle strutture, non solo finanziarie, della regione, nei trasferimenti statali e adesso in quelli europei, cresceranno in modo distorto e improduttivo. Come leggere le analisi della mia commissione antimafia siciliana che furono poi di supporto della relazione Chiaromonte. Interessi della borghesia mafiosa, di cui parla Umberto Santino, dove banche, a partire da Notarbartolo e Palizzolo, esattorie, fatti più o meno eclatanti di impresa, tutte rivolte a sacralizzare le liturgie di spesso inutili, quanto enfatizzate infrastrutture, hanno finito per deviare pur possibili azioni di programma e di un qualche possibile sviluppo. Dalla montagne di risorse sperperate non poteva che derivarne lo sfacelo e l’abbassamento di un ethos complessivo di società, dove il merito finiva spesso posposto o scartato nella logica non uguale del familismo amorale. E della mafia. E della camorra, come per le smisurate provvidenze, e per le urgenze che diventavano alibi per attenuare i controlli, nel dopo terremoto in Campania, e della ‘ndrangheta che forse in Calabria è l’unico potere visibile, etc. E si è prodotta più storia di quanto se ne potesse consumare. Dalle stragi nei paesi e nelle terre, a quelle del saccheggio urbano, al corleonismo feroce e spettacolare dei , agli andamenti carsici successivi, alla mafia- light del post-coleonese, fatta di santini, padrepii, madonne che piangono, esibiti verso Santiago.
E allora l’utopia, dice Renda? L’utopia come futuro che in qualche modo si anticipa? O come un ulteriore abbassarsi dell’orizzonte delle speranze? Come isola che non c’è o come anti-geografia dell’esistente?
E gli uomini saranno tutti come i rinoceronti della amara metafora di Ionesco? Forse Renda nei prossimi dialoghi coglierà il senso di azioni e di appelli, di testimonianze e di rischiose analisi e riflessioni. Vogliamo dire di quel molto “ cuore oltre l’ostacolo” che comunque è apparso come una possibile luce nell’inverno dello scontento. Che poi la luce sia stata precipitosamente spenta, anche con l’alibi di magnifiche sorti e progressive, è appartenuto alle logiche forti dei poteri e delle loro compromissioni.
In fondo colgono lo spessore della nostra attualità Guido Crainz e Massimo Salvadori, quando, anche rileggendo Fenoglio, ci raccontano che durante la guerra di liberazione non erano nemici solo i tedeschi, che tutto sommato facevano, con crudeltà, il loro mestiere ( e questo allora sembrava essere più che uno stereotipo), quanto i resistenti, che ai contadini menavano “la morte addosso prima del tempo”. E i contadini “li ricevevano solo con un cenno, con un sospiro…Stanchi siamo, stanchi, stanchi, …di vedervi ammazzare…di essere chiamati ad assistere…questa vita ci disgusta, ma anche l’amiamo”, dicevano. Discutere con la resistenza poteva significare soprassalti di consapevolezza, comportamenti carichi di nuovi doveri. Percorsi comunque pericolosi e scomodi. Forse era meglio affidarsi al destino, che, nel calcolo delle probabilità, poteva anche risparmiarli, senza un forzare la mano che, a quel punto, significava, è vero, una scelta di civiltà, ma a quale prezzo. Un prezzo che era meglio se pagato da altri.
Così in Sicilia adesso la rivolta morale, diceva Mastropaolo agli incontri del Gramsci, non è divenuta organizzazione democratica. Piuttosto contrassegnata dalla più deteriore tradizione clientelare: il cuffarismo, appunto, come “stile di pensiero, visione del mondo, senso comune”. Congruente con la maggioranza dei siciliani. Quasi, moltissimi anni dopo, a dare ancora valore all’ossimoro del Tarrow tra sinistra e mezzogiorno.
Ancora l’utopia di Renda. Quell’ utopia che nella storia si è molte volte avverata, dall’illuminismo alla laicità del dare a Cesare, dalla rivoluzione francese ai diritti affermati nella rivoluzione americana, dalla speranza marxiana, ‘pur sempre una grande idea’, alla fine del latifondo in Sicilia. O, invece, solo l’apocalisse, in una dialettica tra configurazioni terribili ed improbabile rasserenazione finale che è come se contenesse l'immensa metafora della storia? Ma non è proprio da questo che può determinarsi un processo di ricostruzione per ciascuno, perché è nel cuore degli uomini che confliggono incongruenze e scale valoriali che si distorcono? Eppure I segni di un riscatto sono apparsi nella fatica del vivere e dell’agire, ma conteranno solo le celebrazioni dello stillicidio dei martiri.
Anche l’ineluttabilità del dolore può avere i segni di un accettato necessario soccombere, necessario e quindi senza speranza. Ineluttabilità però potrà anche significare trovare logiche di adattamento nell’ambito della politica, non anello tra la cultura e la storia, ma regno delle possibilità.
E se il futuro ancora una volta ci facesse accettare i “barbari” raccontati da Baricco, come rivolta contro la insipienza del ragionare istituzionale?
Come se, nella metafora della Tempesta shaekspiriana, alla fine dovesse comunque prevalere lo stato di natura di Calibano, con il suo lato oscuro e irrazionale, rispetto al Prospero della modernità dell’ uomo rinascimentale? Di Prospero che rappresenta lo sforzo per sottomettere le negatività istintuali: in una rappresentazione che non è trascendente, ma strumento della coscienza ed elemento che modella gli eventi e, soprattutto, permea e dà vita.
Tra l’altro barbari e calibani potrebbero essere i nuovi patrioti armati in difesa di un etnia troppo spesso vilipesa o comunque ignorata: ed è in questa logica da film noir (una logica al cui confronto l’esperienza del populismo cuffariano appare come modo attualizzato, anche se in forma assolutamente perversa, delle buone azioni da boy-scout) che era sembrato voler ripartire il nuovo government.
Allo stesso modo, alla fine degli anni settanta, si esprimeva un personaggio, notoriamente mafioso, per contrastare un immaginaria offensiva delle Brigate rosse, alla quale il mimetismo mafioso, sembrava voler attribuire gli inizi dello stragismo corleonese. E ancor prima la mafia, dietro il separatismo, aveva cercato di utilizzare ufficialmente le bande armate di Giuliano.
Poi fu possibile che le del cuffarismo, e del lombardismo, che da “diverso” si risolse come cuffarismo al quadrato, arricchite dall’incedere di uomini di voce dura, che parlavano con la bocca piena di sassi, venissero proposte, in qualche modo ripensate, in bella e colta forma, da studiosi ed economisti, in verità più lobbisti che economisti, presenti in modo plurivalente e multistagionale negli ambulacri delle cronache siciliane, per contribuire a definire permanenti piattaforme di potere. Che, per ripartenze senza complessi, stracciavano addirittura le letture e i riferimenti di Renda a narrazioni di sofferta compiuta creatività, promettendoci stentoreamente nuovi cieli, nuova terra, arrossati da liberatori roghi dei libri.
Ma questo che sembrò coglierci di sorpresa significò, ci ricordava Renda, ancora una volta non squadernare la peculiarità dell’agire mafioso. Uno specifico che non si racchiude in “una monade senza porte né finestre”, diceva anche Salvatore Lupo, ma che nella “ frantumazione dello stato, divenuto debole network di relazioni informali”, ritrova, per intero, il campo di una “compatta struttura clandestina”. E questo non voler cogliere peculiarità dei modi di produzione mafiosa, di tralasciare colpevolmente di dipanare la matassa dell’ontologia mafiosa, di addentrarsi in necessarie letture strutturali, si opacizzerà nei tentativi di tracciare solo risapute periodizzazioni di storicismi obsoleti quanto inutili. Non sarà solo la memoria dell’offesa, rivissuta formalmente, senza farla diventare anima e sangue di un nuovo inizio, a ribaltare le condizioni di soffocante degrado civile. Che poi il non voler ribaltare niente per lucrare rendite di posizione sia questione di vita vissuta, sostanzialmente un mestiere, appartiene a romanzi di formazione e a pratiche saprofite.
Ed è come se lo spirito, che una volta soffiava quando e dove voleva, adesso, nella mitica stanza siciliana dello scirocco, non riuscisse più nemmeno ad alitare.
Era già successo col vento del nord, ricordate? Poi fu la Portella di Renda. Poi l’intendenza che ne seguì. Con la mafia che imboccava, scriveva e ci insegnava Francesco Renda, la via parlamentare al potere.
La sua storia, come parte della storia siciliana. Azioni compiute in uno scenario adesso più compreso proprio perché più raccontato, quasi in presa diretta. Così il passato comunista, un “insieme sterminato di fatti”, riletto nel ’90, da figlio dell’Ottobre, che però non è vissuto solo di quella storia, ma anche di cultura luterana e che finalmente può invocare il Voltaire della tolleranza. Che può superare l’asfissia del centralismo. E così l’autobiografia, di chi era nato in un mondo di contadini, e aveva partecipato a quella riscossa che aveva “sgretolato il millenario latifondo e il relativo potere baronale”, attraversa tutte le stazioni di una vicenda di uomini, del partito, del sindacato, dalla partecipazione, indicibilmente sofferta, alla tragica vicenda di Portella, al 18 aprile, al Milazzismo, dalle attività parlamentari a Roma e a Palermo, alla rilettura delle vicende dell’Autonomia, alla speranza di un socialismo dal volto umano. Poi l’università, maestro di uomini di buona volontà, per “inventare” una riscrittura possibile delle cose di Sicilia, ridisegnando orizzonti sperati e realisticamente configurati. E le sue pagine ci coinvolgono anche personalmente, nel ricordo commosso di un esperienza suggestivamente ricca, messa affettuosamente a disposizione di quanti si accingevano ai calvari delle azioni di governo, in una sorta di volenteroso e motivato new-happening. L’utopia di Renda è come un futuro che in qualche modo viene anticipato. Nella consapevolezza del fatto che “il tempo che noi viviamo non è la fine della storia”. Si può guardare avanti facendo tesoro dell’esperienza. Il futuro ha sempre un cuore antico. E cos’è, diceva, l’andare verso il partito democratico se non riprendere anche il filo rosso, questa volta senza doppie verità, della svolta di Salerno, di quella svolta che resta comunque uno dei fondamenti dell’Italia repubblicana, e che poi sarà storia, in tempi altri, ma anch’essi terribili, di Aldo Moro e di Luigi Berlinguer?
La storia perciò come sempre contemporanea. E Renda considerava con un Bloch, di prima del 44, “con ragione il presente umano come perfettamente suscettibile di conoscenza scientifica”. Altri storici, aggiungeva con Bloch, ne riservavano invece lo studio “a discipline ben distinte da quella che ha per oggetto il passato. Essi, per esempio, analizzano, pretendono di capire l’economia contemporanea con l’ausilio di osservazioni limitate, nel tempo, ad alcuni decenni. Insomma, considerano l’epoca in cui vivono come separata dalle precedenti da contrasti troppo accentuati perché essa non abbia in sé la sua propria spiegazione. Questo è altresì l’atteggiamento istintivo di parecchi semplici curiosi. La storia dei periodi un po’ lontani li attrae soltanto come un inoffensivo lusso dello spirito. Da un lato, pochi antiquari intenti – macabro svago! – a togliere le bende agli dèi estinti; dall’altro, sociologi, economisti, pubblicisti: i soli esploratori del vivente…”. La Storia, il presente umano, come suscettibili perfettamente di “conoscenza scientifica”…e Francesco Renda il presente della Sicilia, a partire dalle analisi della complessità del passato, lo ha, esplorato, vissuto, raccontato per intero.
Prof Giuseppe Campione ©