Oggi ho letto uno status su facebook che mi ha aperto gli occhi. La questione in soldoni era: “Tizio vodafone mi chiama per farmi un’offerta imperdibile, gli dico che non m’interessa (giustamente, ndr) e lui mi manda a cagare, lo stesso faccio io a mia volta! Assurdo, incredibile, ma viri chi cc’è ccà e via dicendo.
I commenti ovviamente erano unanimi, tutti volti ad appoggiare la malcapitata del vastaso di turno. Comprensibile, diciamo. Poi ci ragioni meglio e ti passano davanti scene apocalittiche di poveri cristi davanti un monitor, con le cuffiette. Un sospiro e l’ennesimo cliente da chiamare. Il povero cristo spera con tutto se stesso che il cliente:
A) non lo mandi a cagare;
B) non gli attacchi il telefono in faccia;
C) lo faccia parlare come un pirla per poi mandarlo a cagare ugualmente.
L’eventualità di fissare un appuntamento è talmente remota che il povero cristo non la prende neanche lontanamente in considerazione.
Squillo, squillo… Pronto?
Eh sì, signora…
Ah, non m’interessa…
E lì il povero cristo smette di ragionare, anzi vorrebbe buttare tutti i santi dal paradiso, a uno a uno, per chiedergli che cazzo deve fare uno pe’ campa’.
Così, incurante delle conseguenze, per la prima volta da quando lavora col culo incastrato in una sedia, le cuffiette che gli fanno prudere le orecchie e un monitor che gli brucia gli occhi, il povero cristo sbrocca e manda la cliente a quel paese.
Discutibile ma liberatorio.
E lì viene fuori l’empatia o la totale assenza di questa. Mi ritrovo a difenderlo “poraccio, fa un lavoro di merda… io dopo due ore bestemmierei nuda con gente attorno che mi butta acqua santa”.
Mostri empatia quando tu, sola contro tutti, difendi l’indifendibile.
Per esempio difendi il rom che fa capolino nello status di un’altra. Alla malcapitata, stavolta, “li zingari” hanno rubato il portafoglio.
Difficile riuscire a difendere un soggetto che va in metro a ripulire le tasche dei passeggeri, lungi da me farlo, ma alla fine è più forte di me e timidamente dico: “Beh, anche gli italiani rubano… E dato che siamo nettamente superiori di numero è possibile che vi siano più delinquenti italiani che rom”. Uso la logica o la matematica, ma in entrambe scarseggio.
La mia empatia, anche questa volta, non trova compagni di merende: vengo io stessa definita piaga sociale. “Quannu c’era mussolini..” mi ribatte un ragazzino di ventitré lune.
E lì mi cadono le braccia, mi chiedo: che sia io quella sbagliata? No, Rosita, sei solo affetta da empatia acuta e non c’è niente di male in questo. La mia coscienza prova a rassicurarmi sul fatto che il mondo ha bisogno di empatia perché senza questa non capiresti mai il dramma di morire per ipotermia su un barcone al largo di Lampedusa. Saresti un Salvini qualsiasi che sui social vomita veleno e si augura più morti.
Il mondo ha bisogno d’empatia per vivere. L’empatia è l’ossigeno che inspiriamo prima di buttare fuori l’anidride carbonica: l’odio, l’indifferenza, la mancanza della benché minima capacità di riflessione. Usiamo la pancia per parlare, agire, indignarci. La testa, quella mai. La lasciamo agli sfigati che vivono in un mondo a parte fatto di persone che almeno ci provano a camminare nelle tue scarpe*, se poi le scarpe sono strette, pazienza.
L’empatia sconfiggerà la guerra. Se mi mettessi nei panni di una madre libica o siriana o afghana, come potrei permettere che un cacciabombardiere mi distrugga casa e mi uccida i figli?
Non m’illudo, ma aspetto, aspetto che si aprano gli occhi, le orecchie, i cuori e che si chiudano le pance.
Io aspetto, non deludetemi.
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* Walking in someone’s else shoes è una frase idiomatica inglese, corrispondente all’italiano “mettersi nei panni dell’altro”.