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Lo schermo frazionato dei titoli iniziali, spesso inutile escamotage confusionario mentre qui tutto sommato degno d’essere per la sua riproposizione nel finale, segna quella che sarà la strada di Marina de Van fino all’ultimo fotogramma.
Uno schermo diviso a metà.
Una donna divisa a metà.
Dall’esterno infaticabile arrampicatrice d’organigrammi, dalla vita sentimentale colma e un futuro roseo con il marito (Laurent Lucas di Due volte lei, 2005) sempre attento a volerle bene.
Dall’interno insofferente essere masochistico, devastata da un desiderio morboso e aldilà del proprio controllo di vedersi da dentro. Tagliandosi, lacerandosi, facendosi a pezzetti da conservare per sempre.
La doppia identità, il sfuggire senza riuscirci al proprio “signor Hyde” quando le persone intorno non concepiscono “lo strano caso” che hanno di fronte, risulta il vero traino di Dans ma peau perché sebbene il sangue non venga affatto risparmiato e le ferite siano mostrate con dovizia di (det)tagli e le lame dei coltelli entrino ed escano dalla cute come se fosse un foglio di prosciutto, tale gore resta una roba forte anche per i duri di stomaco, ma già veduta, in tutte le sue gocce rosse, e idem per gli squarci epidermici e/o affettamenti vari. Niente di nuovo sotto questo sole nero.
A rivitalizzare l’horror mostrato ci pensa per l’appunto la trascinante condizione della protagonista combattuta tra le sue due personalità e i problemi annessi alla sfera personale: vedi colleghi amici e fidanzato.
Omettendo l’eziologia del disturbo – e va benissimo così poiché la regista sarebbe sicuramente andata ad impelagarsi nei soliti luoghi comuni dell’infanzia difficile – ci troviamo di fronte una donna che pur avendo tutto dalla vita preferisce asportare lembi di pelle da se stessa, conciarli come il cuoio e stringerli al seno per rivendicarne la proprietà. Non si tratta di uno schiribizzo mania passeggera, è istinto animalesco, puro impulso irrefrenabile. E lo si evince dall’ottima scena in cui Esther cena con i suoi colleghi.
Momento di massima tensione: sopra il tavolo la ragazza cerca di essere quella che tutti conoscono, ascoltando l’assurda discussione su quanto il mercato giapponese sia diverso da quello europeo e di come Roma sia una città povera di musei e divertimenti (sono francesi, bisogna capirli), ma sotto il tavolo, ah sotto è l’altra Esther, quella violenta, probabilmente pazza o più semplicemente malata. Difatti vedrà il suo braccio amputato sul tavolo, questa visione è riconducibile ad un disturbo chiamato Body Integrity Identity Disorder (Wikipedia) dove le persone che ne soffrono desiderano eliminare una parte di sé per sentirsi completi. Ma di tutto questo le persone intorno a quel tavolo non se ne accorgeranno mai.
Potrà anche essere una sovrainterpretazione la mia, il film potrà, tutto sommato, trattarsi solo e soltanto di un po’ di splatter messo lì per farsi vedere. Potrà. Se però ci ho letto quello che ci ho scritto, In My Skin possiede qualità nascoste apprezzabili che ne fanno valere una visione.
Per restare in tema buttate un occhio sul sempre francese Cannibal Love (2001) che vede nuovamente una donna dietro la mdp, Claire Denis.
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