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In nome del popolo italiano – Dino Risi, 1971

Creato il 24 settembre 2014 da Paolo_ottomano @cinemastino

in_nome_del_popolo_italiano_locandinaIn nome del popolo italiano (Risi, 1971) affronta un tema sempre attuale in Italia: potrebbe essere stato scritto in ogni decennio della storia recente del Paese senza risultare mai fuori luogo. Tognazzi/Bonifazzi è infatti un giudice istruttore, una persona scrupolosa, meticolosa, precisa, ha una fede incrollabile nella giustizia e mai si venderebbe. È proprio lui che, nella prima sequenza del film, emette «nel nome del popolo italiano» la condanna di un imprenditore per abusi edilizi. Un altro imprenditore, l’ingegner Santenocito/Gassman è l’oggetto delle sue indagini per una serie di reati oggi all’ordine del giorno, nelle fedine penali dei politici; un uomo talmente insofferente nei confronti delle legittime domande della giustizia da proclamarsi innocente ancor prima di essere accusato.

Bonifazzi soffrirebbe di «strabismo legislativo», secondo un suo collega – strabico davvero – che non vuol nemmeno sentire il nome di Santenocito; Bonifazzi gli risponde invece che lui ha «lo zelo eccessivo di chi ha scarsa in­dipendenza morale», mentre il palazzo di giustizia crolla (non solo metafori­camente) «sotto il peso delle troppe cause arretrate»: in queste battute si può riassumere il senso del film e si può cogliere cosa davvero lo lega al presente, ancor prima che al periodo della sua uscita. Nel 1971 questo film poteva forse apparire troppo crudele avanguardistico, distopico, vaneggiante, ma adesso sa­rebbe semplicemente un documentario – e neppure troppo ironico. Non per­ché fotografi fedelmente l’andamento di una vicenda, perché riproponga gli stessi protagonisti nelle stesse situazioni, il che sarebbe anche possibile; so­prattutto perché, invece, succede il contrario di quello che è la norma odierna ma il contesto e le parole degli attori sociali si assomigliano troppo. Eccone un saggio. «Io amo il linguaggio aderenziale e desemplicizzato» afferma Santeno­cito, mentre sproloquia in termini tecnici per provare a intimorire Bonifazzi che lo interroga: sembra di risentire Roberto Maroni al microfono di un gior­nalista. «Lei mi odia a livello ideologico, lei è prevenuto contro di me», o an­cora «lei non è un buon giudice», oppure «Non fu un compenso, fu un re­galo», dice sempre Santenocito questa volta sul pagamento di una prestazione sessuale. La serie potrebbe continuare: «Lei mi vuole colpire per tutto ciò che io ho commesso prima, non per questo affare in cui io sono innocente», «Se lei fosse delle mie stesse idee politiche avrebbe trovato le prove della mia in­nocenza». Com’è possibile non scorgere un anticipo così calzante della sfac­ciataggine dei politici a noi contemporanei, incarnata nel suo ideale più basso e viscido da Silvio Berlusconi e dal berlusconismo – senza che questo voglia ri­ferirsi solo alla politica di destra, visto che personaggi come questi non si avvi­cinano nemmeno al campo semantico delle parole “politica” e “destra”?

La caratterizzazione dei personaggi, proprio in virtù di questa somiglianza involontaria, è fin troppo efficace: sono le loro azioni e pulsioni, i loro obiet­tivi che fanno progredire necessariamente la trama. Non c’è alcuna forzatura nel colorire i loro atteggiamenti, ma solo un’accurata indagine sociale che da sempre è presente nei film di Age e Scarpelli, unita alla virulenza che contrad­distingue le satire di Dino Risi. I dialoghi sono espliciti o allusivi, a seconda di quanto meglio possa essere espressa la situazione, e il piacere di ascoltarli – o la disperazione nel riascoltarli – deriva anche dal potersi indignare insieme, dal triste constatare che nulla sembra essere cambiato nel modo di vivere la poli­tica, i privilegi. Ecco perché è difficile non fraternizzare col giudice Bonifazzi nel momento in cui distrugge la prova dell’innocenza di Santenocito, riu­scendo finalmente a incastrarlo; innocente sì per l’omicidio di cui era accusato, ma colpevole di tanto altro. Ed ecco perché risuonano ancora più grotteschi i suoi proclami d’innocenza: perché sono sinceri, una volta su mille. Ma nep­pure la certezza di essere innocente gli aveva impedito di fabbricarsi comun­que un falso alibi. Deformazione professionale.


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