In piedi sui pedali.

Creato il 25 aprile 2015 da Emialzosuipedali @MiriamTerruzzi

Il rapporto tra uno scalatore e la salita ha un non so che di mistico che è sempre difficile indagare, forse anche comprendere. Quando sale, la strada fa male, ti spacca le gambe, ti senti il respiro a metà all’improvviso. Come può esserci amore in tutto questo?
Edoardo Zardini che ha sangue di scalatore nelle vene mi ha spiegato che questo ha a che fare con la libertà e con il sentirsi leggero, più di tutti gli altri. E’ il primo, credo, che me lo ha spiegato con così tanto cuore, con così tanta passione, che riuscivo addirittura ad immaginarmelo all’attacco. In quel preciso istante dove tutto sparisce. In quell’istante dove tu scatti e gli altri rimangono lì.

Fuori c’è il vento del Garda che scuote le palme e fa cantare le corde delle barche come una ninnananna sinistra nelle ultime ore del pomeriggio. La hall dell’hotel è tutta bianca, silenziosa, dai vetri si vede il pullman della Bardiani CSF e i meccanici che lavano le bici. Forse l’acqua è la sola voce che accompagna il vento. I ragazzi sono in camera e aspettano il turno dei massaggi.
Edoardo Zardini mi accoglie con un sorriso e mi stringe la mano. E’ la prima volta che ci incontriamo ma lui comincia a parlare subito della tappa e del Giro del Trentino. Mi spiega che sta bene, ha fatto diciotto giorni in altura sull’Etna assieme al Bongio (Manuel Bongiorno) e il suo obiettivo qui in Trentino era quello di far classifica, oltre a prepararsi naturalmente per il Giro d’Italia. Poi parliamo del suo Fans Club. Sono dovunque. Alle partenze, sulle salite, agli arrivi. Maglia verde quasi fluo e scritta bianca orgogliosamente esibita sulla schiena: “Io tifo Zardini”. “Mi seguono da quando correvo con gli juniores” spiega Edoardo. “Poi quando sono diventato pro hanno cominciato ad organizzarsi ancora di più. La colonna portante del gruppo è mio padre poi c’è Franco, detto il Moro che in pratica è il vigile del mio paese, Ivo e mio zio Vittorio.”

Suo padre è quello che pensa alle magliette, alle bandiere, agli striscioni. Suo padre è anche quello che quando aveva otto anni l’ha portato a fare metà Stelvio in Mountain Bike. Praticava altri sport, giocava a calcio, sciava ma il rapporto con la salita è sempre stato quello: sanguigno, qualcosa che senti a pelle, come un destino disegnato sulla mano. Nel 2004 comincia ad andare in bicicletta. Allievo. Poi dilettante, prima nella Mantovani e poi nella Colpack. Quando Edoardo parla dell’approdo in casa Reverberi traspare la sua gratitudine. “Loro hanno avuto fiducia in me, ci credono” dice. “Da dilettante ho vinto qualche corsa ma non vincevo tutto, non ero il corridore sul quale si punta senza alcun dubbio. Ho sempre fatto le cose per gradi perché sono convinto che i professionisti bisogna farli quando si è davvero tali e i risultati si conquistano gradino dopo gradino. Ecco perché ora, paradossalmente, faccio meno fatica. Forse perché ho dosato le mie energie, sono cresciuto del mio passo: sapevo di poter fare bene e non mi sono creato pressioni inutili, specialmente sul tempo.
A Edoardo daresti vent’anni. Ne ha venticinque e ragiona come uno di trenta. Quando parla di sé è determinato e allo stesso tempo umile. Ripete più volte che ancora non si conosce fino in fondo: è sicuro del suo amore per la strada che inizia a salire ma non sa dove potrà arrivare. Per il futuro sogna un salto di qualità in una World Tour. “Sia chiaro” puntualizza, “io qui con la Bardiani sto benissimo. E’ una squadra fantastica che ha fiducia nei talenti e nelle potenzialità di ciascuno e quindi sono anche più libero di muovermi, di fare esperienza. In futuro mi vedo, magari, a servizio di qualche capitano in un grande Giro. Ancora non so in che ruolo, magari come appoggio in salita. Uomo di classifica no, sono onesto con me stesso: non riuscirei a tenere le tre settimane. Soprattutto a livello mentale.”

Adesso, a proposito di livello mentale, la testa è già al Giro. Edoardo punta alle tappe singole, di montagna, anche se sa che dallo scherzo che ha giocato l’anno scorso a Brentonico, lo tengono più d’occhio. Ora sanno che non è uno da lasciar andare perché è capace di arrivare al traguardo senza fatica. “Oggi, per esempio, volevo attaccare anche io dove ha attaccato Richie Porte” spiega. “Avevo provato la tappa e sapevo che bisognava dare il colpo di grazia in quel punto. Richie ha pensato la stessa cosa e aveva più gambe di me. L’anno scorso non mi conoscevano ancora bene, non credevano che avrei resistito fino al traguardo.
San Giacomo di Brentonico, seconda tappa, Trentino 2014. Non lo stesso arrivo di quest’anno, salita fino alla fine. Edoardo scatta e vince tutto solo sotto una pioggia fitta e sottile, sotto un cielo grigio di montagna agli inizi di primavera: gli occhi chiusi per un istante, le braccia lungo il corpo. La bellezza di arrivare in vetta. Una delle cose che a Edoardo piace del ciclismo. E’ strano e intenso questo rapporto con le salite, quando gli chiedo di spiegarmelo cambia il tono della voce: “Mi piace sentirmi leggero, specialmente adoro il momento in cui dai gas: partire e lasciare tutti lì, sentire che la bici scorre, che è tutto perfetto. Scattare è il mio gesto preferito. Tanti mi dicono che devo pedalare di più sulla sella, che non bisogna sprecare troppe energie ma a me piace troppo alzarmi sui pedali. Non ce la faccio a stare seduto. Voglio scattare così, secco. Niente progressioni.
Sorride. Queste cose forse non si possono spiegare fino in fondo. La bicicletta è prima di tutto un rapporto intimo che noi cerchiamo di leggere come se fossero pagine di un romanzo. Edoardo parla ancora, dice che gli piacciono anche le corse al Nord. E’ reduce dell’Amstel ed è la sua seconda volta. “La prima” ride, “è stata disastrosa. Mi sentivo sperduto. Invece quest’anno ero più consapevole, mi sentivo bene. Quei percorsi sono labirinti, bisogna sapere come muoversi però io sono uno che memorizzo tanto, mi piace fare le ricognizioni. In queste corse impari molto, sono una grande scuola. Devi essere spericolato, mollare i freni. E’ che quando hai davanti squadroni di cinque o sei elementi di esperienza che fanno la corsa, puoi fare ben poco.
Mi racconta di quanta fatica si faccia per ottenere gli inviti, come una corsa nella corsa. Del divario che si sta creando e della difficoltà di reggere il livello che si sta sempre più alzando. Ragazzi che devono imparare subito, in fretta, raddrizzarsi da soli. Il ciclista è un mestiere duro anche quando non si è in sella. C’è così tanto da dire che si potrebbe stare a parlare per pomeriggi interi. Ma Edoardo deve salire per i massaggi.
Ma prima ti voglio raccontare un’altra cosa” dice. “Una cosa che non mi scorderò mai.” Ancora Giro del Trentino, questa volta due anni fa. Arrivavano a Panarotta. Tappa lunga, dura, di montagna. Edoardo cade due volte. La prima mentre attraversano una galleria e, quando riparte, si accorge che la leva del manubrio è storta. Allora si appoggia all’ammiraglia dove c’è il meccanico e cerca di farsela riparare in corsa. E’ un attimo. La macchina va a sessanta all’ora, lui perde l’equilibrio e cade. Una grattata sull’asfalto. Quando si rialza non ha più addosso niente, solo brandelli di divisa. “Sembrava che avessi combattuto contro un orso” scherza. “Mi faceva male tutto ma fortunatamente non avevo rotto niente. Perciò mi sono impuntato e sono arrivato fino al traguardo e di chilometri ne mancavano tanti! Un calvario che oggi forse non rifarei. Poi mi sono medicato da solo e il giorno dopo sono anche andato in fuga. ” Alza le spalle. Il ciclismo è fatto di ragazzi che in corsa diventano leoni e il più delle volte lo fanno nel silenzio. Da quel giorno i suoi compagni l’hanno soprannominato “Il Gladiatore”. Sì, quel giorno non se lo scorderà più. Non solo per il dolore della carne viva che pulsava durante i chilometri in salita che scorrevano più lenti di tutte le altre volte. Non solo per quell’infezione alla gamba che gli è uscita qualche giorno dopo. Soprattutto perché un anno dopo, esattamente quello stesso giorno, ha vinto su a Brentonico e i suoi del Fans Club si sono ubriacati del vino che scendeva dal palco e si mischiava alla pioggia.

Lascio Edoardo alle mani del massaggiatore e ai suoi pensieri e ripenso a tutto questo mentre esco nel vento che scuote il pomeriggio e scompiglia i capelli. Quassù nell’ultimo angolo del Garda le onde si fanno grandi e impetuose d’improvviso. Cambia il vento presto, anche nel ciclismo. Bisogna essere bravi anche a seguirne i capricci, a volte ad accettarli. Alti e bassi, come nella vita. Ma c’è una cosa che rimane fissa come una stella: la strada che si sceglie. O forse la strada che ci sceglie. Edoardo Zardini, Gladiatore, Zardo per quelli che scrivono sull’asfalto o sugli striscioni, ha scelto quella in salita. E’ la sua. Forse è stato lo Stelvio, quel giorno lontano, a sussurargli nell’orecchio da bambino che bisognava stare in piedi sui pedali per assaggiare il sapore della libertà.



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