Mentre i governi dei Grandi si divertono con i giochi d’azzardo della finanza, quello italiano di trastulla con quello delle tre carte, la versione infantile del fare ammuina, spostando sacchi per lo più vuoti da un posto all’altro per imbonire il popolo. Ma sarà bene prestare la massima attenzione, i ragazzini sono crudeli e quelli che paiono essere solo annunci propagandistici e propositi elettorali, nascondono l’osservanza scrupolosa dei dogmi occidentali: colpire, poco, i pochi, per accanirsi, molto, sui molti. Con un effetto aggiuntivo, che poi è il vero fine della “missione”, limitare diritti, garanzie, certezze per ridurre la democrazia a un contesto virtuale che legittimi disuguaglianze sempre più profonde, la retrocessione di lavoro, persone, beni comuni e ambiente a merci da far circolare, alienare, liquidare.
Apparentemente le migliaia di dipendenti delle Province dovrebbero essere tranquilli: la rivoluzione di Delrio non ha nemmeno partorito un topolino: senza una revisione delle norme costituzionali, vengono aboliti solo i 3000 eletti, il risparmio ammonterebbe a 100 milioni (sempre la stessa cifra come per il signor Bonaventura, come per i tagli degli stipendi d’oro, come i fondi elargiti munificamente dagli sceicchi), ma gli enti e i lavoratori restano e potrebbero essere ricollocati nelle regioni, peraltro con un inevitabile aggravio dei costi. A conferma che al Governo interessa nel breve periodo tirare a campare con un po’ di “propaganda Fare” e poi si vedrà, ma anche – riconosciamolo – come ammissione autocritica di Renzi che ha cominciato la sua irresistibile carriera da presidente della provincia e che quando parla di “scalda – sedie” rivela competenza e sincerità inusuali.
Ma, soprattutto per la non casuale coincidenza con gli annunci balbettati dalla ministra Madia, il sospetto è sempre lo stesso: annunciare tagli discriminati e selettivi sulla classe più odiata dagli italiani, quella politica e quella dei boiardi di Stato, per legittimare poi, a cascata, ghigliottine indiscriminate, esodi biblici, imposti come prezzo da pagare per il “ringiovanimento”, accollati come sacrificio doveroso a beneficio di nuove generazioni, già preventivamente condannate alla precarietà perfino nelle collocazioni un tempo simbolicamente e realmente “sicure”.
Il progetto di privatizzazione delle istituzioni, delle rappresentanze elettive e della pubblica amministrazione, che segue il processo già ben avviato di privatizzazione della politica, richiede il completamento della privatizzazione della Costituzione, manomessa e tirata da una parte e dell’altra, con il fine ultimo di esorcizzare e annientare la sovranità di Stato e popolo. E se adesso serve riferirsi al rispetto della Carta per giustificare lentezze e impotenze nella realizzazione della grande riforma, presto la si potrà stravolgere per dare forma a quel confuso progetto di città metropolitane, riaffiorato da vecchi cassetti dei sogni, infiocchettato con un po’ di modernismo e un bel po’ di dirigismo, che ne esalta l’aspetto aziendalistico.
Il ddl prevede l’aggregarsi di città metropolitane e di aree vaste, ossia fusioni di comuni, cui spetteranno i compiti oggi ricoperti dalle province. Sono nove le città metropolitane: Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Napoli, Bari, Reggio Calabria, alle quali si aggiunge Roma Capitale a cui è dedicato un capitolo a parte del provvedimento visto il suo status di capitale. A queste si aggiungono le città metropolitane istituite conformemente alla loro autonomia speciale dalle regioni Friuli-Venezia Giulia, Sicilia, Sardegna ossia Trieste, Palermo, Catania, Messina, Cagliari. Il territorio delle città metropolitane coincide con quello della omonima provincia. Per quanto riguarda gli organi della città metropolitana, il disegno di legge indica: un sindaco metropolitano, sempre più “podestà”, il cui incarico è esercitato a titolo gratuito, due assemblee (presiedute dal medesimo sindaco), il consiglio metropolitano e la conferenza metropolitana. Il consiglio metropolitano è l’organo di indirizzo e di controllo; approva regolamenti, piani, programmi, nonché ogni altro sottopostogli dal sindaco; è il titolare dell’iniziativa circa l’elaborazione dello statuto e le sue modifiche; approva il bilancio (propostogli dal sindaco). La conferenza metropolitana è organo deliberativo dello statuto e delle modifiche e ricopre inoltre funzione consultiva sul bilancio.
La realtà è molto semplice: se le Province possono essere abolite, vuol dire che quello che fanno è inutile. Ma se invece è necessario istituire settori di Regioni e di Città metropolitane che facciano le stesse cose che prima facevano le Province, conservando lo stesso numero di dipendenti e di strutture, beh allora vuol dire che le loro competenze non sono inutili. Se il taglio significa far fuori qualche parassita d’alto bordo, di quelli che si sono comprati gratta evinci e leccalecca, si tratta di un ben modesto risarcimento civile, che placa il legittimo risentimento dei cittadini, ma poco produttiva sul piano economico. Se, come c’è da sospettare, mira a far fuori i 60 mila dipendenti, investirli da una dinamica ristrutturazione che cambia loro i connotati o spostarli nella scacchiera della mobilità precaria, allora nulla ha a che fare con la tanto propagandata riforma dello stato, ma si tratta solo di una bella ecatombe di lavoro e diritti in salsa greca. Senza contare il costo che pagheremo in termini di efficienza e legalità per il vuoto che si andrà a creare prima della frettolosa riedificazione dei poteri sostitutivi, in materie delicate e strategiche, che dovrebbero essere oggetto di oculata vigilanza, di puntigliosa sorveglianza per contrastare ingerenze di varie tipologie di criminalità, in settori che sarebbe preoccupante delegare mediante artificiale irrobustimento ai comuni e che non rientrano nelle competenze regionali.
Che se proprio si volesse invece punire per inutilità, inadeguatezza, inconcludenza, da smantellare c’era ben altro, le Regioni ad esempio, non solo per essere state, quelle si, fenici che hanno dimostrato un’indole invincibile a rigenerare meccanismi di sottogoverno e corruzione, un’inclinazione alla superproduzione normativa che ha prodotto carichi burocratici e amministrativi perversi, moltiplicando adempimenti e rendendo largamente, colpevolmente e paradossalmente inapplicabili regole e norme, in un’aberrante competizione e in una stolta concorrenza con lo Stato. Chiunque si sia occupato di pianificazione territoriale e di programmazione sa che la dimensione della regione è troppo ampia e quella comunale troppo stretta. E sa che il tentativo di trovare un sistema organizzativo attraverso i comprensori, è fallito. E che le province, istituite dall’ordinamento napoleonico proprio per risolvere quelli che nel XIX secolo erano i problemi d’area vasta (la riscossione dei tributi, la vigilanza contro l’ordine pubblico), tenevano conto delle tradizioni locali e dei variegati legami tra città e contado, tanto che si erano tracciati i loro confini sulla base di indicatori territoriali: la distanza che può percorrere in un giorno un signore che deve recarsi in carrozza al capoluogo per pagare le tasse, uno squadrone di gendarmi a cavallo per ripristinare l’ordine turbato.
Ragionevolmente dunque vennero recuperate per affidare loro quelle funzioni di pianificazione d’area vasta, in ragione della loro qualità di istituzioni rappresentative elettive di primo grado, elette direttamente dai cittadini, con funzioni valorizzate e potenziate in vari settori, dall’agricoltura alla gestione del selvatico, dalla salute alla scuola, dalla gestione dei rifiuti alla a competenze in materia di beni comuni, pensando a un contesto organizzativo efficiente: nuovi poteri alle province e istituzione città metropolitane, attraverso le principali riforme dei poteri elettivi sul territorio definiti dalla legge 142 del 1990, a conclusione di un dibattito durato vent’anni. Così le province sono considerate istituzioni di secondo livello, dove collocare il personale politico in esubero, quello meno rampante e brillante, cui non si voleva assegnare un ruolo prestigioso di sindaco o di legislatore regionale. E nella logica privatistica che ispira il ceto dirigente – potere e suoi luoghi sono affari loro – sono state quelle designate per gratificare revanscismi e populismi, abbattendo un organismo eletto prima di programmare la sua sostituzione.
Tanti hanno sostenuto che l’Italia è una società senza Stato. Il problema è che è una nazione senza Stato, ormai impoverito ed umiliato, senza società, se si sono erosi e spezzati vincoli di coesione, di solidarietà e di responsabilità e senza politica se i processi decisionali seguono i capricci perversi di potentati lontani da qui.