In Siberia, Colin Thubron
Isbn: 9788850202584 – 292 pagine
La Siberia è un luogo che mi ha sempre affascinato (ne ho parlato qui), per la sua vastità difficilmente concepibile, per l’inaccessibilità di larga parte del suo territorio perché è un territorio in larga parte vuoto. Per le storie terribili che ha nascosto in questo vuoto. Un vuoto che trascina la mia immaginazione verso di sé come un buco nero. Viaggiarci (e non mi basterebbe la classica transiberiana) richiede molto tempo e il superamento di alcune difficoltà, ma mi piacerebbe provarci nei prossimi anni. Così quando ho scoperto ‘In Siberia’ di Colin Thubron l’ho divorato in poco tempo. Lo scrittore inglese in questo libro racconta il suo viaggio a metà degli anni’90, subito dopo il crollo dell’Urss. Un percorso da Ekaterinburg al ‘cuore di tenebra’ congelato della Kolyma.
Non sempre trovo la voce di Thubron vicina, nonostante i suoi libri siano splendidi. Non questa volta. Il libro mi ha parlato da subito, anche se il tema è cupo. Presto la speranza, l’attesa che permeano le prime pagine del viaggio (di ogni viaggio) si trasformano in una dolente discesa agli inferi, in cui lo scrittore inglese incontra e scrosta la superficie disperata – a metà degli anni ’90, va ricordato - di un mondo in disfacimento sotto cui ribolle un’umanità mai perduta. Thubron scova anche sorprese inaspettate, assurde e personaggi indelebili, ma allo stesso non fa sconti e racconta con occhio sincero, acuto, tagliente, rendendo alcune pagine quasi sgradevoli. Una sincerità che in molte recensioni sul web gli procurano critiche per l’apparente mancanza di empata (su Anobii c’è addirittura chi, con iperbole poco riuscita, lo definisce una ‘carogna’). Non concordo. E’ un libro sentito, che di empatia è pieno e che col procedere delle pagine diventa doloroso e ossessionante. Certo, forse è solo una parte della storia, ma raccontata, e scritta, molto bene (chi può, dovrebbe leggerlo però in inglese).
Se c’è un difetto è che la natura, uno degli aspetti più affascinanti della Siberia, resta spesso sullo sfondo. Thubron preferisce raccontare storie umane (come quella, toccante, di Georg Steller). Poi, però, ti sorprende con delle pagine così.
I climbed a bluff high above the lake, to an old place of Evenk sacrifice. Beneath me Lake Baikal became an ocean. Its headlands multiplied to the south, fainter and fainter, while all around me the whole northern curve of its water spread kingfisher-blue, edged by a phantasmal range of mountains, sometimes a mile high. All colour, from here, had refined to this drenching blue — even the blue-tinged white of clouds — as if blue must be the colour to which all others purified in time.
It is the peculiar clarity of Baikal which elicits this. As the transparent and slightly alkaline water deepens, other colours are filtered from its light spectrum, until only blue, the least absorbent, remains. Lying over the fault-line of two tectonic plates, whose separation is gradually dropping its floor lower, the waters plunge to a depth of over one mile: by far the deepest lake on earth. Its statistics stupefy. It harbours nearly one fifth of all the fresh water on the planet: equal to the five Great Lakes of America combined, or to the Baltic Sea. If Baikal were emptied and all the world’s rivers diverted to its basin, they would not fill it within a year.
(Colin Thubron, in Siberia via Dwell in possibility)
Link: sull’argomento, il racconto del viaggio di Simone Corazza