La Svezia è stato il primo paese ad includere una legislazione specifica per le cure per le persone transessuali nel sistema sanitario nazionale, nel 1971, con la speranza di migliorare la loro qualità di vita.
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Nonostante le buone intenzioni iniziali, uno studio pubblicato recentemente all’università di Gothenburg sembra dimostrare come questa legislazione sia diventata un sistema oppressivo che causa, invece di risparmiare, sofferenza alle persone transessuali.
“Le persone che sono qualificate per accedere alle misure correttive di genere, anche definite trattamento di riassegnazione del sesso, sono legalmente riconosciute nel genere al quale sentono di appartenere” spiega l’autrice dello studio, l’etnologa Signe Bremer, “ma c’è un prerequisito da ottenere: la possibilità di avere figli biologici“.
In pratica, la legge prevede che le persone transessuali che vogliono essere riconosciute legalmente nel genere al quale si sentono di appartenere, devono essere sterilizzate.
E, come se l’obbligo alla sterilizzazione non fosse già abbastanza doloroso, le persone transessuali devono essere sottoposti ad un’indagine psichiatrica che prevede anche una psicoterapia della durata minima di due anni, prima di poter cambiare legalmente sesso (ndr. anche in Italia per le strutture che seguono i protocolli ONIG, al contrario dei protocolli WPATH).
Inoltre, sottolinea Signe Bremer, parte della valutazione dello psichiatra è influenzata dalla capacità della persona transessuale di fornire di se un’immagine quanto più possibile armonica, rispetto al sesso a cui sentono di appartenere. Ad esempio una transessuale che ha una barba visibile è criticata, mentre un transessuale con un fisico muscoloso viene elogiato, e questo tipo di valutazione non tiene conto dell’importanza per ogni individuo di essere semplicemente quello che è, ignorando che non sempre è possibile modificare a piacimento il proprio aspetto fisico.
Questo modo di vedere la questione transessuale è evidentemente legato a dei principi eteronormativi che non tengono realmente conto dei bisogni delle persone transessuali.
In particolare secondo Signe Bremer questo atteggiamento è rivelato dal fatto che “l’investigazione sul genere tende a focalizzarsi principalmente sui genitali. Una delle donne transessuali che ho intervistato non ha espresso sufficiente rifiuto rispetto al suo organo sessuale, ed il suo percorso di trasformazione è stato interroto per questo“. Infatti, i medici ritengono che il rifiuto per il proprio organo genitale sia elemento fondamentale per poter parlare di vero e proprio transessualismo. (Gulp!)
In conclusione, l’autrice critica risolutamente la comune percezione del trasnessualismo come esperienza di essere nati nel corpo sbagliato condizionata dal fatto che “noi viviamo in una società dominata dall’idea che ci siano solo due tipi di persone: donne femminili che sono nate con la vagina e uomini mascolini che sono nati con il pene“.
A cura delle dott.sse Valeria Natali e Paola Biondi