Un posto qualunque nel Sud del mondo, 8 e 15 del mattino. Una ragazza in una mensa mastica distrattamente il suo paté di fagioli avvolto in una profumata tortilla mentre un venditore ambulante passa con il suo carretto al di là della strada. La radio passa reggaeton, e un pizzico di peperoncino in più dà quel gusto piccante che tanto piace da queste parti. Un sorso al succo di frutta e poi l’ultimo boccone.
Nello stesso istante, a pochi isolati di distanza, il governo indigeno si riunisce per discutere l’azione comune da intraprendere contro l’industria mineraria. Fortunatamente l’azienda non è ancora arrivata in zona, ma loro già lo sanno quello che succederà se la lasceranno fare: l’estrazione dell’oro si fa col cianuro, e a queste latitudini le multinazionali fanno un po’ quello che gli pare. Così dopo aver estratto il minerale pagando l’1% del suo valore come royalty scaricano il pericoloso veleno nei fiumi, o lo accumulano in vasche non isolate fino a quando penetra nelle falde acquatiche.
Una consulta indigena
Non sono nuovi, da queste parti, alle malefatte dell’uomo bianco. Sono secoli che questi viene da lontano a depredarli, maltrattarli, ucciderli. Un tempo erano i conquistadores spagnoli, ora sono multinazionali statunitensi, canadesi, spagnole, italiane..
Oggi come allora si discute della sorte di centinaia di contadini che rischiano di essere spossessati della loro terra, magari con un atto di proprietà falso firmato da qualche notaio corrotto in un lussuoso appartamento della capitale dipartimentale.
Nella sala di mattoni di cemento l’atmosfera è cupa e combattiva. Un centinaio di contadini, tutti rigorosamente uomini, discutono in uno spagnolo stentato, con i loro cappelli bianchi e la pelle corrugata dal sole.
La sfiducia è tanta, e nonostante l’azienda gli ha promesso di costruire una scuola e un campetto da calcio, loro sanno che non devono accettare, anzi resistere, costi quel che costi.
Per fortuna l’azienda -canadese- non ha ancora ottenuto la licenza di esplorazione. Questo sì almeno lo sanno, o meglio sono riusciti a saperlo per vie traverse, perché l’amministrazione locale voleva tenerli all’oscuro di tutto fino al giorno dello sfratto, come sempre.
E per fortuna anche che anni fa un manipolo di signori in giacca e cravatta ratificò nel Congresso di Città del Guatemala una legge, che si chiama “Convegno 169 dell’OIL” che in teoria vincolerebbe lo sfruttamento delle risorse naturali all’approvazione da parte delle persone che abitano queste terre da secoli. Loro questo sì lo sanno e sono decisi a far valere questo loro diritto fino in fondo, per bloccare l’installazione dell’industria.
Quello che serve è una consulta, e oggi si discute appunto di come organizzarla.
Non è facile. Non è affatto facile per dei contadini che sanno a malapena firmare col proprio nome, capire il legalese della gente di città. Oltretutto sono già arrivate le prime minacce, dell’impresa impaziente di fare profitti miliardari mentre i suoi azionisti dormono incoscienti e ignoranti in un ufficio chissà dove dall’altra parte del mondo. E del sindaco corrotto, già paramilitare negli anni ’80 e che ora siede la poltrona del potere accumulando tangenti per ogni opera pubblica e mega-progetto nel territorio di sua competenza.
Dispiegando il suo metro e sessanta di altezza, dentro i suoi jeans -quelli buoni-, la sua camicia macchiata ma pulita, gli stivali di pelle e l’immancabile machete, un contadino si alza e commenta: “Dobbiamo fare come le formiche. Se ti morde una non tardi tanto a sbarazzartene, ma prova a metterti su di un formicaio: dopo cinque minuti già non puoi resistere!” Il linguaggio dei contadini indigeni è spesso ricco di immagini tratte dalla natura.
"Campesinos"
L’assemblea del governo Xinka si alza d’animo mentre tutti visualizzano un uomo in fuga coperto da formiche. Gli uomini nella sala continuano a resistere…
[da: Storie grezze ed ecologiche..]