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Leggendo alcune biografie in rete si evince che il suo stile ascetico (cit. Wikipedia) è stato apprezzato molto dalla critica che lo considera uno dei registi europei più innovativi degli ultimi anni.
In questa sede, almeno per ora, non si può né confermare né smentire tale affermazione, di certo il primo impatto con lui è stato potente, tanto da poter affermare che No Quarto da Vanda (2000) è un film che, per quanto possa valere la mia cultura cinefila, non riesco a paragonare a niente.
Si diceva della durata, quei monumentali 170 minuti calcificati all’interno del quartiere degradato di Bairro das Fontainhas, Lisbona, capolinea per immigrati e cimitero vivente di relitti umani tra cui si iscrive a pieno titolo la protagonista Vanda, già immortalata dal regista nel precedente Ossos (1997), la cui principale attività è quella di fumare crack insieme alla sorella nella propria tetra stanza. Praticamente, per tutta la durata della pellicola non vedremo altro che dialoghi biascicati, sofferti ed urlati tra Vanda e gli ospiti della sua camera; a questi quadretti di totale disincanto si alternano le incursioni silenziose nelle altre baracche dove cambiano gli interpreti e magari anche gli argomenti ma non il tono di abbandono e rassegnazione che queste ombre sputano fuori tra una dose di eroina e l’altra.
Il fatto è che le persone riprese da Costa non sono attori nella vita vera, perché la loro vita è proprio la merda che qui viene raccontata. Quindi abbiamo a che fare con dei non professionisti, e tale aspetto dona già una certa quantità di realtà, ma il vero affondo sul piano del realismo è dato dalla tecnica adottata che non solo conferisce un’atmosfera lontana dalla fiction, ma che distingue l’opera dal resto del panorama cinematografico contemporaneo.
In realtà un vago accostamento lo si potrebbe fare con il Sharunas Bartas degli esordi (vedere Three Days, 1992) che condivide con Pedro Costa almeno due punti: la pressoché anarchia sceneggiaturiale, infatti non abbiamo sul piatto una vera e propria storia ma soltanto bocconi di portate disumanamente simili, e la tendenza ad ingabbiare l’obiettivo all’interno degli “edifici” (leggi catapecchie) che rispecchiano puntualmente l’essenza dei ruderi in carne e ossa fotografati.
Costa però si dimostra inflessibile nello stile e non capiterà mai che la sua telecamera digitale (pare che si sia recato da solo in questo posto di frontiera) compia il benché minimo movimento; se si esclude qualche restringimento di campo montato successivamente, In Vanda's Room è totalmente pervaso da un immobilismo registico che inanella quadri di buia miseria.
Mai come in questo caso è giusto parlare di un cinema che diventa testimone silenzioso, l’occhio dell’autore (praticamente: il nostro) certifica quello che non è il fluire dell’esistenza, bensì la compattezza limacciosa delle vite stagnanti.
La stasi filmica è dunque il canale più adeguato per trasmettere la fissità di Vanda e soci, una staticità che si ricollega al binomio luogo-persona laddove i palazzi in progressiva distruzione sono la perfetta traslazione di esseri umani ad un passo dal crollo, uomini e donne che hanno abbandonato qualsiasi tipo di speranza a cui non resta che soffocare tra i singulti di una tosse catarrosa.
Gravissimo, terminale, sigillato, questo è cinema funereo a cui si accompagnano tedio e pessimismo.
Cinemacigno esperienziale, voto: (1)0.
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