Il racconto
“Mi chiamo Jamal, vengo dalla Siria”, i miei compagni mi hanno insegnato a dire così. Siamo partiti da Belgrado diretti al campo di Kanjiza, vicino al confine. E da lì siamo andati verso Horgos seguendo i binari Insieme alla famiglia Al Bakri che poi è arrivata in Germania.
BUDAPEST – VENTRE A TERRA tra i sabbioni di Horgos, ho annusato l’Europa inseguito dai lampeggianti della polizia. Sono entrato in Ungheria illegalmente come migliaia di profughi, mentre le auto degli agenti ronzavano oltre il confine. Ho corso con tutto il fiato che avevo nei polmoni, sono sgusciato sotto il treccione di filo spinato sollevato da Mohammad. Due auto di poliziotti a una cinquantina di metri da noi non si sono accorte di nulla. Giù di nuovo ventre a terra oltre la siepe di rovi, nel boschetto di betulle. Un baffo di sangue sull’avambraccio. Eccola, l’Europa. Ora sono un “profugo” fortunato, uno di quelli che ce Becej l’hanno fatta.
«Ana Jamal, men Sourja». Mi chiamo Jamal, vengo dalla Siria. I miei compagni di viaggio mi hanno insegnato a dire così, se gli ungheresi ci avessero catturati: «Parleremo noi per te: non daremo le impronte digitali, ci faremo espellere e riproveremo». Eravamo 21, nel frutteto serbo, acquattati tra i pruni dopo ore di marcia. Superata la cortina di ferro del premier ungherese Orbán, ci siamo divisi in gruppetti minuscoli. Più tardi, alcuni dei miei compagni li ho visti illuminati dalle torce della polizia di frontiera. Degli altri non so nulla. Per certo ce l’ha fatta la famiglia Al Bakri, di cui ero diventato il settimo membro con un abbraccio e una pacca sulle spalle tra i giardinetti di Belgrado, prima di tentare l’ultimo miglio di un sogno: entrare in Europa di nascosto senza farsi identificare in Ungheria. Mohammad, 24 anni, è l’unico laureato: è lui la nostra guida. Viaggia con suo fratello Anas; con il cugino Mahmoud, sua moglie Betol e la piccola Rawa, che non ha ancora sei mesi; e con l’altro cugino, il 16enne Mohamed. Oggi sono tutti a Lebach, nella Saar, in un centro di identificazione. Li ho salutati a Budapest prima che salissero in treno: «Ce l’abbiamo fatta, amico mio», mi ha scritto Mohammad dalla Germania.
Siamo partiti da Belgrado con un vecchio torpedone al completo, diretti al campo profughi di Kanjiza, vicino al confine. Dopo dieci minuti, dormono tutti. Sono stremati, il viaggio è stato un inferno. «Truffati dai trafficanti in Grecia», «trattati come bestie da gente ignorante e aggressiva». Mohammad dice che a Mitilene, nell’arcipelago di Lesbo, il campo era «in condizioni disgustose e disumane ».
Al campo di Kanjiza arrivano pullman di migranti ogni dieci minuti. Molti ripartonoverso Horgos, al confine con l’Ungheria. Ma è una bolgia. Interi gruppi vogliono passare il confine insieme: «Ci sono bande di ladri nei boschi, dobbiamo essere tanti per difenderci ». Mohammad mi presenta al nostro gruppo, sono tutti siriani e mi accettano sorridendo: «Jamal italiano», canticchiano storpiando Toto Cotugno. Tentiamo due volte di partire, ma in 21 è un’impresa impossibile. In marcia, dopo un paio di chilometri incrociamo la ferrovia e decine di gruppi in sosta. Da lì, si seguono i binari.
«Dopo aver passato il filo spinato, andremo verso l’area di servizio di Roszke e prenderemo il taxi dei trafficanti», dice Mohammad. Il gruppo ora è enorme. Camminiamo nel bosco, al buio. Qualcuno inciampa, i bambini piangono, i genitori li prendono sulle spalle. In fila indiana, aggiriamo un gruppo di case ma ci fermiamo: i primi della fila, in avanscoperta, dicono che non si passa. Bisogna tornare indietro. Torniamo sui binari. Ogni duecento metri i “capi-gruppo” si fermano a consultare il Gps. «Da ora in poi, silenzio assoluto», ordina Mohammed. Penso alla piccola Rawa: l’ho sentita piangere una volta sola, sul bus, ma è una sirena a mille decibel. «Togliete la suoneria ai cellulari, metteteli in tasca e non illuminate lo schermo per nessun motivo», dice Mohammed. Il confine è vicinissimo. Passiamo in mezzo a un vigneto, e i capi gruppo iniziano a correre tenendo la schiena bassa. Noi li imitiamo. Ogni cento metri ci buttiamo a terra. Altri campi di terra sabbiosa, altre corse. Nessuno fiata. Ecco la luce di un lampeggiante. Si avvicina. È dall’altra parte del confine, sta perlustrando la barriera di filo spinato. I fari illuminano il nulla, noi abbiamo la faccia schiacciata sulla sabbia. Siamo accaldati, le zanzare banchettano. Cento metri di corse, di nuovo a terra, lampeggianti ovun- que e… Rawa. Un sospiro, un vagito, e inizia a strillare. La mamma riesce a farla tacere in un secondo.
Mezzanotte è passata da un pezzo. Per più di trenta minuti rimaniamo lì sdraiati. Troppa polizia. Avanziamo fino alle ultime file di alberi prima del fosso oltre il quale corre il filo spinato. Ci dividiamo in gruppi più piccoli. Oltre il filo spinato c’è la strada sterrata, dobbiamo correre e raggiungere il boschetto di betulle. Mentre attraverso con il cuore in gola vedo auto vicinissime, ma siamo ombre in fuga nella notte e non ci vedono.
Non è finita, però. Bisogna arrivare all’area di servizio. I segni del passaggio, la spazzatura, sono ovunque: questa via è battuta da migliaia di persone. Le luci dell’area di servizio sono vicine, ora. Saranno 300 metri. Mohammed si avvicina: «Tu passerai per ultimo. Hai i documenti, sei italiano, ma per la mia famiglia è la vita». È giusto così. Attendo, poi riemergo camminando, non ha più senso nascondermi. Trafficanti dal volto disumano ci saltano addosso come fossimo prede: «Taxi? ». Naser contratta: 1.200 euro per Budapest. Vuole essere pagato in anticipo. Ci abbracciamo, ci salutiamo. Vado a cercare gli altri nel centro di pre-identificazione di Rotzke, ma non ci sono. Quando torno in area di servizio sono quasi le 4: c’è una retata, hanno catturato anche Naser e i figli.
Articolo intero su La Repubblica del 09/09/2015.