Magazine Cultura
Che ci faccio qui?
di Vittorio Ferorelli
(testo già pubblicato nel n.2/3-2008 della rivista “IBC. Informazioni, commenti, inchieste sui beni culturali”)
Matteo Sauli, 26 anni, ravennate, è l’autore delle immagini che pubblichiamo in queste pagine di “IBC”. “Bagnanti” e “SS309” (la sigla della Strada statale “Romea”) sono i titoli di due progetti fotografici diversi, che affiancati possono raccontare una volta ancora, per frammenti, un viaggio all’interno del nostro territorio. Un vagabondaggio parallelo, in parte camminato a piedi, sulla sabbia delle spiagge più affollate d’Italia, e in parte percorso sulle ruote, lungo la striscia di asfalto, metallo e cemento che da secoli, in attesa dell’autostrada futura, unisce Ravenna e Venezia. Presentando in estrema sintesi sé stesso, e la sua iniziazione alla fotografia, Matteo Sauli spiega che tutto è iniziato facendosi delle domande, “troppe domande”. Così tante da averne tratto una conclusione che, nonostante la sua giovane età, ha già il sapore leggero della saggezza: chi pensa troppo non sempre trova ciò che cerca, a volte basta aprire bene gli occhi. Qualcosa di simile alla lungimiranza con cui, venti anni fa, Bruce Chatwin sostituiva la domanda di rito del pensatore, “Chi sono io?”, con il ben più inquietante “Che ci faccio qui?”, un interrogativo che invece di spingere alla ricerca di una identità astratta (per abbandonarsi poi al tedio della filosofia da camera) preferisce l’esplorazione concreta della località, l’irrequietezza mobile del nomade antico e del moderno flâneur.
Nonostante tutto ciò che si dice e si scrive sull’apocalisse incombente, le immagini raccolte lungo l’attraversamento di una strada e di una spiaggia – due territori di passaggio che la moda sociologica definirebbe senzaltro come “non luoghi” – testimoniano la sopravvivenza inusitata delle storie e proprio dei luoghi. Si potrà poi argomentare sulla decadenza delle architetture, delle infrastrutture, degli oggetti quotidiani e delle stesse forme dei corpi e delle esistenze umane, ma non è ancora del tutto negata la possibilità di camminare alla ricerca di tracce di significato, forse anche di un altro possibile racconto.
Gianni Celati, qualche tempo fa, rievocando i viaggi a piedi con Luigi Ghirri mentre scriveva Verso la foce, rifletteva sulla differenza che esiste tra scrivere a distanza, e prendere appunti, invece, sul momento e nel posto in cui si è (come fa il fotografo con la sua macchina – aggiungerei). Quando si scrive (e si guarda) da lontano, diceva Celati, si corre il rischio che sulle cose prevalga la teoria generale. Quando, piuttosto, si scrive (e si fotografa) per dare conto di quello che si vede e si sente sul momento, magari non si capisce molto, ma si guadagna in libertà. La libertà che nasce dalla consapevolezza di un paradosso: che ogni nostra osservazione ha un limite. “Ti guardi attorno, vedi cosa c’è per terra, se asfalto o spazzatura o altro, poi guardi l’orizzonte e vedi che rapporto c’è tra l’orizzonte e quel pezzo di terra dove stai mettendo i piedi. Lì spunta il senso del limite, che è anche il senso delle visioni e delle apparizioni. Magari spunta solo nei gesti della gente che vedi, nell’apertura dello spazio, o nelle rughe d’un vecchio. Ma la visione d’un luogo sorge, certamente non come un discorso con risposte pronte, ben dette e sicure, ma come un pensare-immaginare su come è fatto il mondo”.
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