E. Dulac, Circe
Le facoltà solari di Circe si possono ristringere ad una caratteristica della cultura indoeuropea schedata da Martin West, per cui il Sole è definito 'The all-seeing God': la maga di Ea, infatti, manifesta sia nell'Odissea (precisamente nel canto XI) sia nelle Argonautiche di Apollonio Rodio (IV, 662-671) capacità divinatorie, in quanto conosce il futuro e sa leggere le premonizioni che riceve in sogno.
Come dea della Terra, invece, Circe esercita la sua malia sulle bestie che circondano la sua casa, presentandosi ai compagni di Odisseo come leoni e lupi ammaestrati e mansueti (Od. X, 210-215), ma non sono queste le forme che ella fa assumere ai malcapitati guerrieri di Itaca quando entrano nella sua casa, attratti dal suo melodioso canto. Gli incauti esploratori, infatti, come è noto, vengono stregati con una pozione (phàrmakon) che li tramuta in maiali selvatici; proprio il maiale è l'animale sacro a Demetra e Persefone, divinità ctonie, e, se non possiamo affermare con certezza che sia questo il motivo per cui Omero conferisce agli uomini tale forma, è più che certo che una scelta di qualche tipo sia stata fatta, perché sia le testimonianze ceramografiche, sia Apollodoro (Epit. VII, 15), sia un altro passo dell'Odissea (X, 431-434) attestano la varietà delle forme che Circe, come la mitica Ishtar del poema di Gilgamesh, usava attribuire ai suoi sventurati ospiti.
Vediamo come Euriloco, l'unico dei compagni di Odisseo che si salva dal sortilegio e torna ad avvertire il comandante, descrive l'incantesimo di trasformazione (Od. X, 233-243):
Guidatili all’interno, li fece accomodare su sedie e troni,La metamorfosi, dunque, si compone di almeno due fasi: la preparazione e somministrazione del ciceone, la bevanda energetica a base di vino, formaggio, farina e miele in unione a dei terribili farmaci che causano la perdita dei ricordi e il colpo di bacchetta. Si è molto discusso sulla natura dalla rhàbdos di Circe, poiché il termine indica vagamente un bastone dagli usi più disparati, ma trovo che, dati il contesto epico (per sua natura sublime), la natura divina di Circe e l'alto grado di straordinarietà del passo, dare credito alle ipotesi di chi, come Stanford, vi vede solo una verga da pastore, sia decisamente irrispettoso della situazione. Tanto più che, quando è il momento di sottoporre Odisseo allo stesso rituale (dal quale, però, lo salverà la magica erba del moly donatagli da Hermes), Circe unisce al colpo di bacchetta una frase: «Ora vai nel porcile, stenditi fra gli altri compagni» (X, 320).
e per loro mescolò con vino di Pramno formaggio,
farina e miele dorato; al cibo unì
terribili farmaci, affinché dimenticassero completamente la terra dei padri.
Dopo averglieli somministrati e quando li ebbero bevuti, a quel punto
colpendoli con una bacchetta li rinchiuse nei porcili.
Ed essi di porci avevano il muso, il verso, le setole
e la sagoma, ma la mente era ancora integra come prima.
Così, mentre piangevano, essi furono rinchiusi; e Circe
gettò in mezzo a loro come cibo ghiande, datteri e frutti di corniolo
che i porci mangiano sempre giacendo a terra.
F. von Stuck, Ritratto di Tilla Durieux nelle vesti della maga Circe (1913)
Queste poche parole, unite al gesto, sono forse il più antico incantesimo attestato nell'epica e vi sono diversi elementi per pensarlo. Innanzitutto, lo stupore e il terrore di Circe per la mancata metamorfosi di Odisseo si manifesta solo dopo il pronunciamento della formula e il gesto della bacchetta: se l'effetto doveva essere compiuto senza questi ulteriori passaggi, non si capisce perché la situazione non si capovolga immediatamente. Ma ammettiamo che possa trattarsi di una debolezza narrativa. Rimane, comunque, il fatto che Circe viene descritta, come si diceva in apertura, quale 'Dea terribile dalla voce umana (audeéssa)' e il sistema degli epiteti formulari epici (quelli, cioè, che rimangono costantemente associati a uno o più personaggi) è estremamente rigoroso: se il poeta ha ritenuto fondamentale attribuire alla maga l'aggettivo audeéssa, probabilmente il riferimento alle proprietà devastanti della voce deve essere mantenuto. E, tuttavia, se ancora non ne siamo convinti, dobbiamo prendere in considerazione una vera e propria categoria di iscrizioni incantatorie archeologicamente documentate da C. Faraone come 'incantesimi esametrici', testi di carattere magico-popolare scritti proprio nella forma di un esametro omerico e con i quali, a livello terminologico, il verso del poema ha alcuni elementi in comune. Ma vi è un'ultima, importante prova a favore della magia della frase apparentemente banale di Circe e, insieme, della natura incantatoria della bacchetta: il rituale di difesa illustrato da Hermes a Odisseo prevede tre generi di azione: assumere l'erba magica (un altro phàrmakon), sguainare la spada per minacciare Circe e, infine, vincolarla ad una promessa di cessare ogni minaccia con il 'giuramento terribile degli dei'. Abbiamo, dunque, un phàrmakon, un oggetto di forma allungata da puntare contro il nemico e una formula verbale, un rituale tripartito di contromagia che quasi certamente è la risposta ad una triplice minaccia: il phàrmakon metamorfico, la bacchetta, la formula magica.
J.W. Waterhouse, Circe
C.M.
NOTE:
Questo post è la sintetica riduzione di uno studio che ho personalmente condotto sulla magia e sulle sue protagoniste all'interno della poesia greca antica e che ha costituito la mia tesi di Laurea magistrale, intitolata Thelktéria. Personaggi femminili, oggetti e parole della magia nella poesia greca da Omero all'età ellenistica. Seguiranno gli articoli dedicati ad altre maghe della mitologia. Rimango a disposizione per chiarimenti bibliografici e sottolineo, qualora qualcuno fosse interessato ad utilizzare parte del testo, che la lettura della frase di Circe al v. 320 del libro X dell'Odissea come incantesimo è frutto di una personale analisi e argomentazione.