Dall'ottimo articolo di Michele Smargiassi, inviato al Meeting di CL a Rimini, scritto per R2 di Repubblica di oggi, estraggo:
«E adesso voi relativisti come la mettete?». Incrocia le braccia, si dondola sulla sedia, stringe gli occhi e aspetta la risposta. La mettiamo cosa? «Con Fukushima. Con Oslo. Col crollo delle borse...». Un terremoto, un pazzo assassino, una crisi economica: scusa, che c'entra il relativismo? Filippo sfodera un sorriso beffardo da “qui ti volevo”, studia filosofia a Milano, ci sa fare con le parole: «Come fate a cavarvela con il vostro pensiero debole, il vostro scetticismo sistematico? Vi siete costretti a dubitare di tutto, e adesso avete paura di tutto».
Come la mettiamo, dunque, noi relativisti? È vero che abbiamo paura di tutto? E se sì, perché?
Migliaia di famigliole, di ragazzi, stanno correndo ad ascoltare un filosofo, Costantino Esposito, cantare le lodi di qualcosa che il denaro e i potenti non sanno più garantire: la Certezza. Un'ora di escursione sulle cime ostiche del pensiero («Mi capite? Mi state seguendo?») fino alla vetta: «La vera certezza è appartenere a Qualcuno». «Ho capito solo questo, ma per me è abbastanza», applaude convinta l'infermiera Ilaria di Padova.
Adesso comincio a capire perché ho o, perlomeno, dovrei avere paura: perché non appartengo a Qualcuno. È il destino dei blogger l'inappartenenza. Di questo ne sono ben consapevole. Individualismo puro, sì, ma anche coscienza piena di non essere soli. La solitudine sconfitta dalla solitudine. Non rinchiudersi nell'effetto serra delle certezze che surriscaldano il cervello, che non permettono di prendere aria nello spazio delle idee possibili. E adesso capisco anche di cosa ho paura veramente: di aver fede, di credere indubitabilmente in qualcosa che mi rinchiuda nella prigione della certezza. Si nasce e si muore soli. La vita è un fatto personale, nessuno ci ha domandato il permesso se volevano venire al mondo o meno. Io, che tanto ho faticato a svezzarmi - e forse ancora non ci sono nemmeno ben riuscito - figuriamoci (almeno la penso così in questa fase della vita, chiaro) se voglio identificarmi con un'appartenenza, quale che sia. Se una cosa so di me, ovvero se ho una minima certezza è quella di non averne, appunto, quella di sentire di non essere teleologicamente orientato verso un fine, se non verso la fine, come mi diceva una signora al mercato stamani sostenendo che costa caro anche morire: novemila euro per due forni, no cazzo, voglio la terra, o il fuoco e l'aria, e ché bisogna fare un mutuo per morire? Ma tassiamo fino alla morte le onoranze funebri che vanno a giro con quei mercedessoni station wagon brutti come Gheddafi e Berlusconi insieme. Ma riprendiamo il discorso:
È la sottile rivalsa sugli “allegri nichilisti” e i loro sberleffi postmoderni, subiti per decenni. Come dire: adesso tocca a voi, i cultori del relativo, patire «la tortura invisibile dell'incertezza» stando a un titolo dell'Osservatore Romano dell'inizio di questa estate di sconquassi. «Gli uomini con una certezza incidono nella storia, l'incertezza fa soffrire», ribadisce la presidente del Meeting Emilia Guarneri con vago compiacimento. È così: a Rimini, a centinaia di migliaia, sono arrivati i pellegrini dalle certezze salde».
Proprio così, purtroppo: la storia è stata sovente incisa da uomini dalle certezze granitiche, tatuata a sangue - e molto, da far ritornare i fiumi in piena. Obietterete che non tutti gli uomini con una certezza sono degli Hitler, degli Stalin, dei Mussolini. Accolta l'obiezione. Il problema è quando si radunano popoli intorno alle certezze di qualcuno. È lì che la storia subisce il graffio, l'unghiata. E poi non è vero che l'incertezza sempre fa soffrire. No. Soffre chi vive l'incertezza in una perenne attesa di raggiungere la certezza.
È questa in fondo la forza dei nipotini del “Gius”. Loro sì che hanno la “vocazione maggioritaria” e la applicano. Amano annettersi con civetteria culturale i territori più inattesi e impervi, meglio se rimasti disabitati. Arruolano Sartre, Pasolini, Pavese, preferiscono il tormentato Dostoevskij al moralista Tolstoj. La colonna sonora del Meeting è di un cantautore cubano fotografato davanti al ritratto del Che.
Et voilà: noi incerti dubitanti, giunchi pensanti, sofferenti e gaudenti insieme, che cerchiamo l'infinito nella gioia dell'attimo e poi a culo tutto il resto; ecco cosa noi siamo - attaccati come siamo al celeberrimo osso montaliano: sappiamo solo cosa non siamo e cosa non vogliamo. Soprattutto: non vogliamo arruolare nessuno, in fondo non diamo garanzie di pubblico e successo. Siamo esseri nella fase in cui, per dare un significato alle cose preferiamo ragionarci su, anziché affidarci ad esse come fossero vere a prescindere. «La vera certezza è appartenere a Qualcuno», sento ancora suonare questa frase. Mi tocco le palle e mi ci attacco. Ora sì che appartengo a qualcuno (“q” minuscola, s'intende).