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In televisione dicono una parola, una parola che non capisco. La dice una donna, lentamente e in modo chiaro, come se tutti dovessero capirla. Questo peggiora solo le cose, perchè quello che dice non corrisponde a quello che vedo. Il televisore peraltro è bello, l'abbiamo appena preso, per ultimi nella strada, e io ho fatto di corsa tutto il tragitto da scuola. E adesso succede questo.La parola è consuetudine. Non è una parola troppo lunga, e io mi vergogno un po', perchè ho appena compiuto undici anni. Non c'è nessuno a spiegarmela, sono seduto da solo in soggiorno.Erling Jepsen, L'arte di piangere in coronon ho potuto fare a meno di paragonare questo libro all'altro, recensito qualche tempo fa, che aveva ugualmente come protagonista e voce narrante un ragazzino più o meno di questa età. qui il lavoro dell'autore è molto ben riuscito e l'artificio di pensare con la testa di un bambino funziona. il libro è uno spaccato di vita famigliare; il padre è un mediocre, ma ha il dono di pronunciare discorsi commoventi in occasioni quali matrimoni e funerali; la madre è poco più che succube, il fratello maggiore è fuori di casa per studiare, la sorella mezzana è un'adolescente vagamente disturbata e il piccolo, ovvero il narratore, fa da testimone e a volte da complice. per esempio, accetta come qualcosa di naturale l'incesto che si consuma tra il padre e la sorella, anzi è lui stesso che incoraggia la ragazzina ad andare a calmare il genitore. storia di ordinario squallore dunque, narrata con una certa delicatezza e attraverso uno sguardo ancora innocente e leggermente stralunato.